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Tigre reale

Di: Giovanni Verga

PARTE PRIMA

I

Non sapevo più nulla di Giorgio La Ferlita allorché ricevetti il bigliettoche m'invitava alle sue nozze. Dacché si era messo nella carriera diplomaticanon ci eravamo visti che a rari intervallie come di sfuggita. L'ultima voltache l'avevo incontrato a Firenzein tutta la pompa della sua cravatta biancaarrivava dal Giapponee ci stringemmo la mano alla tavola rotonda dell'Albergodella Pace. Il mio amico era un bel giovanepieno di brioalquantosarcastico e motteggevolecon una vernice di buona compagnia raccolta qua elàa Londra e a Viennaun po' commesso viaggiatore in uniforme d'addettod'ambasciata. Fu gentilissimo verso di memi riconobbe subitonon mi parlòde' suoi viaggie a mo' di ringraziamento gli offersi un sigaro mentreprendevamo il caffè; me lo ricambiò con uno de' suoiaccennandomene però lalontana provenienza; il discorso si metteva sul freddinoe finì lì; cifacemmo grandi promesse di vederci spessoe ci incontrammo due o tre volte sulvestibolomentre egli sortiva ed io entravoo viceversa. Un bel mattino poi micapitò in camera come una bombaparlandomi di non so che duellopel quale mipregava di assisterlo con tali discorsi e tal viso da spiritatoche dissi di nodue volte invece che unae naturalmente ci lasciammo meno amici di prima. Duegiorni dopo seppi che era stato inchiodato al letto da un colpo di spadaeandai a trovarlo; egli aveva la febbre; mi narrò una storiala quale sembravaanch'essa un delirio febbrilee che racconterò forse in seguito.

Durante la sua convalescenza andavo a trovarlo tutti i giorni; egli mi tenevail broncioe per dir la verità un po' di rimorso l'avevo anch'io. Un mattinolo sorpresi mentre in fretta e in furia stava facendo le sue valigie; non midisse dove andavanon mi disse perché partivami rispose per monosillabiconimpazienza nervosa. L'accompagnai fino alla stazionee in mezzo al granbrulichio della folla sembravami completamente sbalordito; al momento diprendere il biglietto mi domandò se quella corsa coincidesse colla partenza delpiroscafo da Napoli per Costantinopoli.

«Ma dove vai?» gli chiesi infine.

«Non lo so; vado a Napoli per ora. To'guarda!»

E con improvvisa risoluzione mi mostrò un biglietto da visita sul quale erascritto:

«Vi amopartoaddio.»

Nient'altro: il nome era stato raschiato col temperinoe sul bigliettorimaneva soltanto una corona di contein altoe quella sola linea fineeleganteondulanteche sembrava sdraiarsi mollemente sotto quella coronastirandosi le bracciaproprio per far perdere la testa al mio povero Giorgioil quale di per sé non ne aveva già molta.

Lo rividi due mesi dopo al Doneycol naso al vento come uomo cui il ventospiri secondo e imbalsamato di tutti i profumi della giovinezza. Mi fece unalunga chiacchierata di certi danari che aveva aspettato inutilmente a Napoliedi certa Palmira che avea rapito ai trionfi del San Carlo per ingannare la noiadella bolletta. «Quella del biglietto da visita?» gli domandai. «Quale?»quasi non si rammentava più. «Ah! no! tutt'altro! quella lì correva piùlesta di mee sì che non era il borsellino che mi dava peso! Non quellapurtroppo!»

E si mise a fissare il fumo che svolgevasi dal suo sigaro. Poi si strinsenelle spalle.

«Ci rivedremo» mi dissee non ci rivedemmo altro.

Giorgio era sempre stato uno di quei fortunati che attraversano la vita incarrozzacome soleva venire a scuola quando faceva troppo freddoo quandofaceva troppo caldociò che per caso accadeva tutti i giorni. A vent'anniaveva pubblicato un volume di versi che posarono un'aureola precoce sui suoicapelli biondi; a trenta correva per le capitali e le alcove a spese dello Stato- è vero che babbo La Ferlitapur brontolandoaiutava parecchio la Stato. -Suo padreonesto e forte lavoratorevenuto su dal nullaadorava con tenerezzamaterna cotesto ragazzo dElicato e linfatico; avea dedicato tutto se stesso etutto il suo avere a spianargli la via che eragli sembrata la più bellaperché il figliuolo ci si divertivae a mettergli della bambagia sotto ipiedi; se avesse potutocon quell'esagerazione del sentimento di protezioneenel tempo istesso di devozione verso il deboleche c'è nei caratteri generosie robustiavrebbe portato sulle braccia il suo bambino sino ai trent'anni.Giorgio era arrivato alla maturità della giovinezza senza un ostacolosenzauna contrarietàsenza avere l'occasione d'impiegare una sola delle suefacoltà virili nelle lotte della vita. Il buon padre sorrideva del suo grossorisocontento allorché scorgeva nel giovinetto le debolezze nervose e legrazie femminili che gli rammentavano la sua povera moglie.

Così Giorgio non aveva dovuto occuparsiper 365 giorni dell'annoche dellacera dell'usciere di Sua Eccellenza e del sorriso delle donne. Ora che era unuomo serioun tantino materialista come conviensi a diplomaticonon facevapiù versianzi si vergognava di averne fattima giovavasi della vecchiaabitudine di guardare in ariaper mettere del cobalto nel suo orizzonteefaceva servire la linfa che c'era nel suo organismo da poeta a rendere piùsoffici i cuscini di quel tal cocchio che lo menava attraverso la giovinezzaallegramente e a quattro cavalli. Quando qualche sassolino ne faceva rimbalzarele ruote - un pentimentoun rimorso di dieci minutiuna stretta involontariadi cuoreun rossore importuno - egli si voltava dall'altra partesirannicchiavasi stirava le braccia sbadigliandochiudeva gli occhi per nonvedercidiceva: «È la passione!» e si rimetteva a sonnecchiare coll'animo inpace.

Ora cotesto farfallino avea buttato la sua uniforme in mezzo ai ventimilafilari della stupenda vigna che gli portava in dote la signorina Ruscagliaes'era convertito al matrimonioun bel matrimonio che gli dava 600.000 lireeduna magnifica bruna - Giorgio aveva sempre preferito le brunequando avevapotutoe quella era proprio un bel tocco di brunala quale prometteva di fareonore alle vesti scollacciate che lo sposocon un po' di opposizione dellasuoceraavea fatto ordinare a Firenze. Allorché il nostro amico venne astringerci la mano sulla porta della chiesetta di Tremestieriavea l'occhioluminoso e il sorriso trionfante del dì in cui la moglie dell'ambasciatoreinglese s'era lasciato rapire il più bel guanto di questo mondo. Babbo LaFerlita era morto lasciando al figliuolo una bella educazioneuna bellacarriera ed un bellissimo avvenirEche aveva punzecchiato e smunto l'ambizioncellae la borsa del buon negoziante di zolfi. Giorgiosenza neppur mettere piede aterranon avea potuto far altro che passare dalla sua nella carrozza dellasposa.

La cerimonia fu brevetutta luce di soleprofumo di fiorie allegria dibianche pareti; sembrava che le nostre giubbe e il fazzoletto della suoceraingiallito nel guardarobatutto ricami e fradicio di lagrimefossero le solecose tristi di questa valle di lagrime. I due sposi partirono in mezzo agliauguri e alle strette di manoancora circondati da un leggiero velo d'incensotenendosi a braccettola sposa un po' impettitaun po' serrata nel suo vestitogrigio svolazzante in balzane a sgonfiettie un po' imbarazzata dall'ariasignorile dello sposodall'ombrellino appeso alla cinturadal velo azzurro cheimbrogliavasi nel grosso nodo delle trecce. La carrozza li aspettava al piededella larga spianata erbosacoi postiglioni gallonati a nuovoin mezzo ad unafolla di contadini estaticie di monelli che si specchiavano facendo boccaccenella vernice luccicante delle fiancatee si sparpagliarono vociando dinanziallo scoppiettare delle fruste.

«Buon viaggio agli sposi!»

Buon viaggio! e non vi voltate mai più verso tutto quello che vi lasciatedietro in mezzo alla polvere che fugge: voisignorai romanzi nebulosi dellacameretta tappezzata di carta a grandi fiori azzurri; quel volume del Pratiprestato e ridomandato venti voltedal quale avete invano cercato di farscomparire i segni impercettibili fatti coll'unghia; quel piccolO orologioregalo della nonnasul quale volgeste tante occhiate furtiveagucchiandopresso la mammanell'ora in cui egli - quell'altro - soleva venireequell'ultima stretta di mano che scambiaste allorché egli partiva pel collegiodi marinaprima di fuggire e rintanarvi nella cameretta dai fiori azzurri comeun uccelletto ferito - e tuGiorgiotutti i sorrisi che rallegrarono le paginedel tuo album da scapoloe tutti i biglietti che profumarono il cassetto deltuo scrittoioti rammenti? E quell'altro biglietto singolaresenz'altro nomeall'infuori di una corona di contessae senz'altra data che il giorno di unafebbredi una folliache è passatalontanamolto lontanati rammenti?

Io me ne rammento ancoradopo tanto tempoe non ho vista colei che una solavoltae mi sembra d'averla ancora dinanzi agli occhi in quella grande salad'albergo triste e nudamentre sTendeva verso il fuoco le mani pallide escintillanti di gemmee mi fissava in volto gli occhi febbrili.

II

Ignoro come e dove si fossero incontrati; certo è che si conoscevano daqualche tempoe s'erano cercati cogli occhi in mezzo alla folla delle Cascine edella Galleria degli Uffizi. «Non saprei dirti se sia bella» mi aveva dettoGiorgio«so che amo come un pazzo cotesta donna di cui ignoro persino il nomee che mi ha detto cogli occhi che le piaccio.»

Vanitàcuriositàsimpatia fisicanon importa- c'era l'ignoto dentro -il gran dio.

La prima volta che seppe il suo nomein un ballo a Pittiseppe anche moltecose di lei: era civettaorgogliosaegoistamarmo di Carrara dentro e fuori;tal quale si vedevacon quel sorriso glacialesi diceva avesse spinto alsuicidio il solo uomo che avesse mai amatoe amato alla folliaun amore daleonessa - si chiamava Natanome dolce come due note di musica.

«Vuol presentarmi a lei?» disse Giorgio dopo avere ascoltato attentamentela viscontessa de Rancy.

«È inutile; ella la conosce diggià.»

«Ella?»

«Simi ha chiesto di lei ier l'altroquando lo abbiamo incontrato acavallo.»

«Ebbene?»

«Ebbeneno.»

«Perché no?»

«Perché ella non vuole.»

«Ah!»

«È innamorato di lei?»

«Non so.»

«Le piace?»

«Molto.»

«Per quel che le ho raccontato?...»

«Forse sì.»

«Vuole un buon consiglioamico mio?»

«Senz'obbligo di seguirlo però?»

«Beninteso; non sarebbe un consiglio se fosse fatto per seguirlo. Qualora sisentisse disposto a montarsi la testa per la contessadomandi d'esser destinatoa Washington o a Costantinopolianzi a Washington addiritturaè piùlontano.»

«Perché mi vuole mandare tanto lontanoquando sto così bene qui? Lacontessa non vuole conoscermilei rifiuta di presentarmiche pericolo c'è?»

«Ebbeneeccole un altro consiglio - questo per esser seguito. - La contessasi è scusata col dirmi che partirà fra breve; io non posso dunque renderlequesto servigioma cerchi del visconte: mio marito non è obbligato a saperequello che Nata mi ha dettoe si faccia presentare da lui.»

«Grazie»rispose La Ferlitacollo stesso tono motteggevole.

Il visconte de Rancy era amico di Giorgio perché si vedevano al Circolo edall'Ambasciata di Francia o al Ministero degli Esteri.

«Volentierissimo» rispose alla domanda di lui «ma è qui poi?»

«Ci sarà di sicuro.»

«Di sicuro?... Non sapete che viene a passare l'inverno in Italia per motividi salute? È una donna andatamio caroe se volete farle la cortenon avetetempo da perdere. Cerchiamo dunque.»

Finalmente la scorsero in fondo ad una salaal braccio del Ministro russo.In mezzo alla gran follacotesta donna pallida e bionda a prima vista non eranotevole che per una certa grazia delicata della persona; ma tutti si voltavanoa guardarlauomini e donneforse per lo strano effetto di quei grandi occhigrigiquasi verdastriduri e splendenti come i diamanti della sua coronaoper l'eleganza della veste stretta e increspata sulle ancheche sembravaavvolgerla con abbracciamenti serpentini.

Allorquando i due uomini si avvicinarono a leiella si era fermata dinanzi aun camino; vedendoli venireaggrottò le sopracciglia con un rapido movimentoe fissò su di Giorgioattraverso lo specchiouno sguardo limpido e ghiacciatocome il cristallo che lo rifletteva; poi si voltò intieramentee gli piantògli occhi in viso per due o tre secondi; sembrava che il consiglio della deRancy fosse proprio giusto. La contessa accolse freddamente la presentazioneinchinò leggermente il capo senza aprir boccasenza guardare Giorgioquasisenza badarglie si allontanò appena egli ebbe scritto il suo nome sultaccuino che gli presentò. Qui accadde un garbuglio che i padrini di La Ferlitae del maggiore Guidonilo spadaccino famosonon riescirono a mettere inchiaroe che fu sciolto con un colpo di spada. Sembra che la contessa abbiaavuto la bizzarria di offrire il suo taccuino a Giorgio quando la sua lista deiballi era piena zeppae che Giorgio avesse avuto l'altra bizzarria disostituire il suo nome a quello del Guidonie costuia sua voltada uomoammodosi fosse inchinato sorridente e senza batter ciglio dinanzi a non soqual frase indifferente della contessala quale «lo pregava di credere che erasorpresa e dispiacentissima della cosa »e allontanandosi alquanto dallafollainsieme a La Ferlitaavevano scambiato tranquillamente poche parole. Lacontessa non aveva più ballatodel resto ballava pochissimoe allorchéGiorgio la cercava per la sua contraddanza che gli costava un duellola videche se ne andavasenza rivolgergli neppure un'occhiatacome non si rammentassedi nulla.

Si curò poi di sapere quale dei due uomini avessero pagato con la vita unsuo capriccio da romana al circo? Nel tempo che Giorgio aveva guardato il lettomolte persone erano state alla sua portae gli erano venuti molti biglietti divisitafra i qualiultimoquello senza nome che La Ferlita mi aveva mostrato.

Alfine si erano incontrati. La viscontessa aveva un bel suggerire ottimiconsigli; l'istinto del reciproco egoismo aveva un bel mettere una diffidenzaquasi ostile nel primo incrociarsi dei loro sguardi; il casola simpatia deicontrastila fatalitàli avevano posti faccia a facciae sin dalla primavolta ci avevano rimesso qualche cosaegli un lembo di carneella unacontraddanzapiù tardi forse qualcos'altro.

Cotesta donna avea tutte le aviditàtutti i capriccitutte le sazietàtutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raffinata- era boemacosacca e parigina - e nella pupilla felina corruscavano dellebramosie indefinite ed ardenti. Anch'essacome Giorgioaveva strascinato lasua stanchezza irrequieta dappertuttoin carrozza o in slittacolla rapiditàdel vento che avea appassito le sue guance e increspato non senza leggiadria lesue labbra. Tutti avevavano arso l'incenso dinanzi all'idolo modernoil maritoche l'aveva sposatagli uomini che tentavano rubarla al maritole donne che leinvidivano le sue gemme e la sua avvenenza; questa grande passione umanainnome della quale ell'era divale turbinava ai piedile ripetevaincessantemente lo stesso innoglielo sbriciolava qua e làal balloalteatronelle visitein frasi galanti e in occhiate sentimentali. Ellarittasul piedestallos'annoiavae provava delle curiosità pungenti. Una voltaunavolta solaquel sentimento ignotoquel trastulloquella forma d'omaggiouniversalel'avea investita dai piedi alla testa come una fiammae le aveadato febbri da leonessa. Più tardiallorché s'erano veduti nelle festelasua fronte di marmo e i suoi occhi asciuttinessuno avrebbe potuto indovinareche ella soffocasse ruggiti di spasimoe di quel turbine che in un'ora aveasolcato la sua animadi quella caduta in un istantenon rimanevano altrevestigia che il sorriso implacabile della sua civetteriae certa aviditàscintillante dello sguardo che sembrava cercare qualche cosaun confortounricordo o una rappresaglia - non più scetticama diffidente - guardinga persée spietatamente capricciosa cogli altri.

Dall'incontro di questi due prodotti malsani di una delle esuberanzepatologiche della civiltàil dramma dovea scaturire naturalmentedramma ofarsacome dall'urto di due correnti elettriche. Giorgio effeminatoeffeminatonel senso moderno ed elegantebuon spadaccino all'occorenzanel quarto d'orae tale da giuocare noncurantemente la vita per un capriccioma solito adesagerare il capriccio sino a farne una passionee solito ad esagerare l'ideadella passione sino a renderla realmente irresistibile; fiacco per non aver maicombattuto se stesso. - Quell'altra con tutti gli impeti bruschi e violentidella passione infermavagabonda ed astrattaperò forte e risolutacol cuoredi ghiaccio e l'immaginazione ardente. Egli con tutte le suscettibilitàcontutte le delicatezzecon tutte le debolezze muliebri; ella con tutte leveemenzetutte le energietutti i dispotismi virili.

III

L'inverno era sopravvenutogrigio e triste. Giorgio rivide la contessa alleCascineraggomitolata in un angolo della sua carrozzatremante di freddo sottoun mucchio di pellicce e un bel sole di novembre che splendeva sul cielo puro eazzurro. Era pallidadimagrataavea gli occhi stanchiarsi di febbrechevagavano distratti o pensierosi sulle alte cime degli alberi spogliate delleultime foglie. S'incontrarono faccia a faccia; ella si fece bianca un istante.Sapeva che egli era ancora a Firenze? che l'avrebbe incontrato? Aveva volutorivederlo?

La Ferlita era in carrozza colla sua Palmira; piantò carrozza e Palmira alPiazzonee tornò indietro. Non incontrò più la contessanon poté piùrivederla per alcuni giorni di seguito. Infine si decise ad andare adinformarsene dalla viscontessa de Rancy.

«Si»rispose costei. «So che è ritornatama non ho potuto vederla. Èmolto malatasa?»

«Infatti...»

«È tornata a passar l'inverno a Firenze. I medici non l'accordano due annidi vitae le hanno consigliato il clima d'Italia.»

Giorgio parve distratto; si misero a parlare di cose indifferenti;sopravvennero parecchie visitee la conversazione si fece generale. La Ferlitadisse alla viscontessa in un momento di a parte:

«Penso a quel che si deve provare essendo l'amante di una donna i cui giornisieno contati.»

Ella gli fissò in viso uno sguardo attonito.

«Amico miole so punto testama un po' di cuore glielo so. La lascitranquillapoveretta! sarà meglio per entrambi.»

Due giorni dopo La Ferlita ricevette questo biglietto laconico dalla de Rancy:

«Venga giovedì. Ella ci sarà.»

«Il mio biglietto le ha messo l'argento vivo addosso?» gli domandò laviscontessa vedendolo arrivare prima delle dieci; «e viene a domandarmi il comee il perché. La cosa è quale gliel'ho detta; s'è invitata da sé. Il perchépoi me lo dirà lei.»

«Quando lo saprò.»

«Quando lo sapràben inteso. Con chi era sabato scorso alle Cascine?»

«Le ha fatto questa domanda?»

«Curioso! Con chi era?»

«Non mi rammento nemmeno di essere stato alle Cascine sabato scorso.»

«Ha incontrato la contessa alle Cascine uno di questi giorni?»

«Sì.»

«Era solo?»

«No.»

«Adesso il perché lo so; non occorre altro.»

E lo piantò lìtutto irto di interrogazioniper andar incontro a duesignore che giungevano.

I giovedì della viscontessa de Rancy erano affollatissimi sempre. La padronadi casa era troppo occupata perché Giorgio potesse sperare da lei la menomaspiegazione prima delle due del mattinoe andò a rassegnarsi con un album difotografie.

Verso le undici entrò Nataelegante come semprema avea gli occhiprofondamente solcatied era imbellettata. Giorgio dal suo posto sorprese unosguardo circolare di lei sulla folla.

Le due amiche si andarono incontro premurosamente e passarono insieme allealtre sale. In tutta la sera non riuscì al diplomatico in erba di attirarel'attenzione della contessamalgrado le sue manovre macchiavelliche. Solo almomento d'andarsene ella lo scorse vicino al pianofortee fece due o tre passiverso di lui colla mano tesacol sorriso sulle labbracolla più schiettanaturalezza.

«Perché non è venuto a farmi visita?» gli disse in italianocon unleggero accento stranieroma senza il menomo imbarazzo.

Giorgioancora un po' sorpresorispose:

«Perché non me ne ha accordato il permesso.»

«Se non è che questo glielo dò due volte» e gli tese anche la sinistra. Ecosìcolle mani nelle suefissandolo in viso. «Sono in casa tutti i giornidalle quattro alle sei. Se vuole trovarmi venga dopo le quattro.»

Giorgio s'inchinòe accompagnandola per sortire:

«Si fermerà tutto l'inverno a Firenze?» le chiese.

«Non so. I medici pretendono che il clima del nord mi uccida. Ho una saluteche non val nullacome potrà vedere» aveva il petto candido e delicatocoperto da filari di perle. «Starò forse sino a marzosino a giugnonon soinsomma. Sono variabile anch'io come la mia salute. Abbiamo parlato molto di leicolla viscontessa. Ella deve partire fra qualche mese?»

«Dipenderà dalla destinazione che mi sarà data.»

«Allora si faccia destinare a Pietroburgo; ci sarò fra il giugno e illuglio.»

Così dicendo gli scosse brevemente la manocome ad un vecchio amicoeduscì.

«Cosa le ha detto?» domandò la viscontessa al momento in cui La Ferlitaprendeva commiato da lei.

«M'ha detto d'andare a farle visita.»

L'altra scoppiò a ridereben inteso di un riso impercettibilediscretoche scopriva appena i suoi bei denti smaglianti.

«Ella sta meglio assai. Non le sembra?»

«Sì.»

«È vero che avea messo del rosso... Poverina! Vorrei che i medici sifossero sbagliati. Sa? abbiamo parlato di lei. M'ha detto che si è fattopresentare da mio marito.»

«Nient'altro?»

«No. Abbiamo riso della sua ostinazione; io più di leiperò! Vuole cheglielo dica sul seriomolto sul serioamico mio? Temo che questo bel scherzoabbia a diventare troppo brutto e troppo serioil che sarebbe una grandisgrazia.»

Giorgio si strinse nelle spalle.

«Proprio una gran disgrazia! Sino ad un'ora fa temevo soltanto per leicontutto il suo spiritocon tutta la sua pratica mondanae con tutta la suadiplomazia. Però la conosco abbastanzae so che un viaggiouna croceunaballerinauna perdita al giuoco l'avrebbero guarito. Ma adesso Nata è malataè troppo deboleha troppi nervitroppa suscettibilitàche so ioinsomma ilpericolo è tutto lì... ha qualche cosa di insolito e di infermiccio.»

Giorgio non sorrideva più.

«Infinequal donna crede che sia?»

«La credo una leggiadra bionda - non bella ma leggiadra - molto eleganteche fa bene in un saloneche ha bei diamantiun bel nomeun maritogran signoregeneraleamico personale dello Czare lontano.»

«E poi?»

«Il poi non si comandacaro mio. E poi nullao tutto. Ci ricami sopra isuoi sogni roseiquali essi sienoe ci metta addosso delle sete e delletrine.»

«Se facesse apposta per farmi innamorare di costei» esclamò Giorgiocercando di sorriderema con un'ombra d'impazienza«non potrebbe far meglio -o peggio.»

Allora la viscontessalevandosi bruscamente:

«OrsùLa Ferlitase ne vadach'è tardi; abbiamo sonno e sragioniamoentrambi. Domani o doman l'altro la vedrà. Sia suo amico o suo amanteos'ammazzi per leicome quell'altro. Buonanotte.»

IV

Il villino abitato dalla contessa era nel viale Principe Amedeole suefinestre chiudevano da tre lati un giardinetto tascabilelargo cinquanta metrima avevano di faccia San Miniato e il leggiadro serpeggiamento del Viale deiColli. Le aiuole verdi del giardinograndi come tappeti da bigliardoe queglialberi nani facevano un bel vedere sulla facciata nuovalisciata eimbellettatae sulle finestre di cui i vetri irradiavansi dei colori delletende allorché il sole vi batteva sopra. Alla seradalle otto alle undicimentre i rumori della città si perdevano in lontananzala luce che scaturivada quelle finestre strette fra di loroadornecivettuolefoderate di velo edi damascoricamava a giorno come un merletto il disegno della cancellata sulmarciapiede della larga via oscura e quasi desertae lambiva le foglie lucentidelle magnolie. Le poche persone che passavano si fermavano un istanteomettevano il capo allo sportello della carrozzaper rallegrarsi la vista aquella lucea quei luccichii che carezzavano qua e là i mobili e le stoffeaquel dolce tepore profumato che indovinavasie immergendosi nel buiomentre siallontanavanosi voltavano ancora per cercare di leggere un sorriso sullafaccia di quella dimora felice.

Al di dentro quella dimora felice avea un altro aspetto. Nella stanza piùlontana dalla vianell'angolo più remotostava di solito Natavicino alcaminoillividita dagli azzurri bagliori della fiammacogli occhi semichiusicome enormi macchie nere sul viso smortoallungando i piedi sul tappetoabbandonando il capo sulla poltronasfogliando le pagine di un libro otrastullandosi macchinalmente colla ventola. Tutte le altre stanze erano vuotemutefredde; il domestico passeggiava silenzioso nell'anticamerae in mezzo aquel silenzio lo scoppiettare dei tizziil tic-tac dell'orologioo il rumoredelle carozze che passavano nella via avea qualcosa di triste.

Allorché Giorgio era andato a far visita alla contessaverso le cinquetutte le finestre della casa luccicavano come specchi; al disopra delle tegolerosse e in mezzo alle guglie sottili dei camini il sole sembrava diffondersicome un'aureola di polvere d'oro. Nataudendo una carrozza che si fermava alcancelloaveva volto istintivamente il viso verso l'uscio del salottocon unrapido movimento. Giorgio la trovò presso la stessa finestradavanti a unpiccolo tavolino incrostato di rame doratosu cui c'erano i suoi libri e le sueletteree sembrava più sola e derelitta che mai. Il salottotutto foderato diseta azzurraera poco illuminato e vi ardeva un gran fuoco. Quello splendidogiorno invernale non metteva né un raggioné un sorriso in quella stanzina.Gli uccelli facevano gazzarra nel giardino elegante e malinconicoe fin sullefinestree fra i vetri e le tendine vedevasi una lista di cielo terso elimpido. La luce attraverso la seta delle tende penetrava teneradiffusaenell'angolo del caminetto era assorbita dai chiarori rossastri della fiamma.Natacolle spalle rivolte a quel quadrato di luce azzurrinasembrava quasi albuioi suoi occhi parevano più grandi e profondie il suo pallore sembravaquasi verdastro. Ella batté le mani con un movimento infantileestendendogliele entrambecol suo più bel sorriso:

«Bravo! Se sapesse come giunge in buon puntoe come le son grata della suavisita! Vede? Tutta la mia vita si passa cosìa contar gli alberi del viale.Ed ecco la mia più grande distrazione.»

Giorgio si chinò ad esaminare la grande distrazioneun disegno giapponeseche la contessa stava incollando su di una ventolae si misero a discorreredelle industrie di quel paesedove La Ferlita avea passato parecchi anni comeaddetto alla legazione. Nata gli faceva mille domandeuna più bizzarradell'altrae di tanto in tantosenza pensarcigli piantava in volto quei suoiocchioni prenetanti e impenetrabili. Tutt'a un trattofra la descrizione di unbronzo niellato e di un lavoro in avoriogli domandò:

«Dev'essere un po' in broncio con medica?»

Egli levò il capo bruscamente; la contessa non lo guardava neppuretenevail disegno attraverso alla luce per vedere se fosse disteso abbastanzaammiccando un po' degli occhicolle mani in altobianche come cera eleggermente trasparenti nei contorni. Non sembrava nemmeno che avesse fattoquella domanda.

«Io!» disse alfine La Ferlita.

«Siun peubeaucouppassionnément - passionnément!»

«Mais non! rien du tout!»

Ella si voltòcolle mani ancora in aria e il disegno che faceva datrasparente.

«Davvero? tanto meglio! Non può immaginare qual piacere mi faccia...»

E chinando il capo con quella sua aria da statua che non lasciava indovinarese scherzasse o dicesse sul serioaggiunse con un certo sibilo nell'accento:

«Merci!»

Successe un istante di silenzio; ella sembrava tutta intenta al suo lavoro:poi lo buttò in un cestino e andò a posare il piede sul posacenererialzandoun po' la veste e appoggiando il gomito al piano del camino.

«È stato sempre a Firenze tutto questo tempodacché non ci siamo visti?»

«Sìall'infuori di un mese di congedoche poi si fece di ottosettimane.»

«Non l'avevo più visto dopo il mio ritornoe credevo fosse partito.»

«Io però l'avevo vista.»

«Dove?»

«Alle Cascinesaranno otto o nove giorni.»

«Non l'avrò riconosciuto. Era una delle prime volte che incominciavo aduscire in carrozzaed ero ancor debolissimala folla mi dava il capogiro.»

«Adesso però sta molto meglio.»

«Siadesso sto bene...»

La Ferlitail quale era venuto sognando senza sapere precisamente che cosama tutto pieno dell'immagine di quella donna che gli avea fatto girar la testacome una trottolaa poco a poco era rientrato nella sua pelle vedendola davicino e discorrendo tranquillamente con lei tanto semplice e naturale; Nata eraassai leggiadra così ritta dinanzi al fuocoma nulla piùe solo allorquandofissavagli in viso gli sguardiegli sentivasi sconcertato e perdeva qualcosadella sua disinvoltura. Allorché si levò per andarseneella stendendogli lamano:

«Prestonon è vero?» gli disse.

Nell'andarseneLa Ferlita diceva fra sé:

«Giorgioamico miom'è entrato il sospetto che tu ci abbia fatto unafigura ridicola. Orsùla testa a casae rimediamo al malfatto.»

Perciò era ritornato altre volte da lei senza farle un briciolo di corte.Ella gli si era mostrata riconoscentissima. Lo accoglieva sempre conun'esclamazione o un sorrisoe gli diceva ch'era proprio una buona azionequella di venire a contare con lei gli alberi del viale. «Che peccato nonesserci conosciuti priman'è vero?» Giorgio rispondeva ridendo: «Ma noi ciconosciamo da un pezzo!».

«Conosciuti?... cioèsconosciuti! Incontrarsi in un ballo non è puntoconoscersi. Ma tant'èmeglio tardi che mai. Del restovogliam divertirciquesto carnevale; ella sarà dei nostri; ellala viscontessasuo maritoequalche altro. Faremo delle follie. Non abbia pauranon lo comprometteremo colsuo Ministroo alla peggio lo faremo compromettere con lei.»

Nelle belle giornate di dicembre ella lagnavasi sempre d'aver freddo estavano a discorrere accanto al fuoco che scoppiettava e illuminava di riflessicangianti il viso scarno e sorridente di lei. Gli avea sempre promesso perischerzo che la prima volta che sarebbe uscita si sarebbe fatta accompagnare dalui. Un giornovedendolo entraregli domandò:

«Fa molto freddo oggi?»

«Punto. È una bellissima giornata.»

Ella andò lentamente verso la finestra e sollevò la tendina.

«Infatti» disse sbadatamente«sarebbe proprio la giornata...»

Il largo viale inondato di sole sembrava in festa. Passavano dei contadinicoi loro carridei commessi che avevano preso da porta San Gallo per andare aporta San Niccolòe delle sartine che avevano dimenticato la loro scatoladalla portinaiaa coppierasentando i muri o serpeggiando per la viatenendosi per manodondolando le braccia o tirando in su il vestitino nuovosugli stivalini polverosi; passava qualche fiacre apertolestochiassonescoppiettando la frustaoppure colle tendine calate che lasciavano passare unamano o un occhio curioso; e in mezzo a tutto questo va e vienidei passerivispi e petulanti che saltellavano sul marciapiede. La cupola del Duomoilcampanilee la torre di Palazzo Vecchiospiccavano sul cielo con profilinettisu di un caos di tetti e di guglie; più in là il palazzo Pittibruno eseverosembrava appoggiarsi alla gran spalliera di verdura del giardino diBoboli. In fondo la leggiadra cintura dei colli stendevasi come un immensogiardino punteggiato di ville bianche e screziato di getti d'acquadi masse diverdi e di bianchi viali serpeggianti; e dietro il vasto piazzaledi cui labalaustra si disegnava sull'azzurroe il profilo grazioso della BellaVillanellaun immenso sfondo ceruleodigradante una luce opalina sui verdicontorni delle colline.

«Ma mi sento molto stanca» soggiunse Nata«come se avessi camminatotanto quanto tutta quella gente lì. Costoro si danno bel tempocome se nonavessero altro da fare!...»

C'era del corruccio nella sua voce e nella ruga verticale che solcò unmomento la sua fronte.

La contessa stava sempre meglioriceveva quasi tutte le sere la de RancyGiorgioe tre o quattro altri; di tutti i suoi amiciLa Ferlita era divenutoil più assiduopassava sovente le sere intere in via Principe Amedeopressoil caminettocol thè fumante sul tavolinoe se pur gli balenava in mente ildesiderio di baciare la mano delicata che gli presentava la tazzalo faceva dadilettanteper una vecchia abitudinequasi per un obbligo di cortesiae nonpensava più che sarebbe stato possibile perdere la testa per quella leggiadrasignora colla quale passava così piacevolmente la serain tranquillaintimità. Un giorno le disse ridendo:

«Perché la prima volta che son venuto a farle visita mi ha domandato sefossi stato in broncio con lei?... Dica la verità... c'è stato un momentotempo fain cui devo esserle sembrato assai ridicolo!»

Ella aggrottò le sopraccigliao perché la domanda la pungesseo perchécercasse risovvenirsi.

«Ridicolo? e perché?»

«Giacché non lo sao giacché non si rammentatanto meglio... Non neparliamo altro.»

«Ma simi rammento. Però non mi sembra ridicolo battersi per la sua dama;io ero la sua dama... allorain quel quarto d'oranient'altro.»

Egliche era stato ad un pelo di rimetterci la pelle invece di far dellearmisi accorse che il meglio era riderne anche lui. Così su quel passatoimbarazzante per ambedueella avea messo risolutamentecon graziail suostivalino polaccoegli s'era chinato ad ammirare il piedee non se n'era piùparlato.

PARTE SECONDA

V


La Ferlita sarebbe stato sorpreso se alcuno avesse affermato che egli faceva lacorte alla contessa. Se quello poteva dirsi far la corteera fare una cortemolto magra. Avea cominciato dall'amarlaè verocome un ragazzocome unostudentema sin dalla prima visita ella gli aveva messo del ghiaccio sullatestae aveano riso francamente di quel ch'era stato di quella sciocchezza; nonl'amava affattone era ben certoma stava volentieri vicino a lei. Ella eratutt'altra donna di quella che avea creduto conoscere; una donna a quarti d'oratutta nervi e capriccitrasformantesi ad ogni momento - giammai la stessa -senza artificio e senza affettazioneforse anche senza averne coscienza; unadonna cui non si sapeva su qual tono rispondere ad una domanda fatta da leiall'istante medesimo. Come amante ella non valeva la marchesané la biondaTargottiné Palmiranon valeva gran cosa insomma; ma come amica eraimpareggiabilenon fosse altro che non ci si annoiava mai un momento in casasuaneanche a star zitti e musoninon fosse altro quella birichina curiositàche vi prendeva di sapere come l'avreste trovata - ché il suo umore era semprecangiante e bizzarro - al momento di metter piede a terra al cancello del suovillino. Anche quale amicasenza avvedersene metteva sempre nella lorointimità un po' dell'ignoto della sconosciuta che si voltava a guardarlo quandol'incontrava in via Calzaioli. L'imprevisto era la sua maggiore attrattiva.

Nata aveva delle ore in cui irrompeva la sua natura selvaggiaspecialmentequand'era sola; allora passava delle ore rannicchiata nella sua poltrona dinanzial fuococogli occhi spalancati ed astrattinon pensando a nullasentendosolo con voluttà carnale le aspre punture della fiamma. Alcune volte stava adascoltare La Ferlita senza dire una parolacolle labbra leggermente contratte ela fronte corrugatavagabondando col pensierorispondendo per monosillabispesso a spropositocol capo appoggiato alla spalliera della poltronastanca oannoiata. Giorgio credeva che fosse ora di andarsenee allorché prendevacommiatoella gli domandava perché volesse partire così prestoe lo pregavadi rimanere. La scena non mutava però; la conversazione languiva come il fuocoche spegnevasi nel caminoe allorché si sorprendevano entrambi dopo unamezz'ora di silenzioella si alzava e gli dava la buonanotte freddamente.

La Ferlita qualche voltasenza volerlodiveniva triste anche lui; il suobuon umorei suoi frizzii suoi aneddoti della giornata gli morivano sullelabbrae il fantasma di quel male terribile che ella non poteva dissimulare ase stessaassorbiva anche lui. La guardava alla sfuggitaquasi di furtoecercava d'indovinare tutte le segrete e profonde amarezze di leie sembravaglidi seguire il pensiero di quella donna che doveva vedere dappertutto la tisinell'allegro fuoco del caminettoin mezzo ai fiori del salottofra le cortinedi broccatofra tutte le pompe e i sorrisi della beltà e della giovinezza.Allora la donna del passato gli tornava un istante dinanzi agli occhifuggevolee luminosacolle curiosità irritanti che ella gli avea comunicato e lepungenti attrattive che aveva avuto. Ei rimaneva sorpresoimbarazzato davanti alei; quando non si udiva più la sua parola ironica o ghiacciata l'illusionefacevasi ancor più completa; egli non osava più parlareassorbivasi in unaprofonda astrazione contemplando tacitamente le trecce bionde di lei allentatesulla nucale mani candide incrociate sulle ginocchia e il viso pallidosu cuila fiamma alternava dei toni ardenti e dei lividi chiarori. Ella serbavainalterabile il suo viso di marmola sua indifferenza profonda e glaciale.Qualche voltamentre discorrevanoquasi sempre allorché Giulio sembrava piùspensierato ed allegroella gli piantava in volto que' suoi occhioni grigidalla pupilla larga e fosforescentee rimaneva a fissarlo così due o tresecondi senza che un sol muscolo del suo viso si muovesse; quegli occhiriboccanti di vita su quel viso impassibile facevano un effetto singolareeGiorgio non poteva sostenerne la tenacità penetrantecome se avessero arimproverargli qualche cosa. Ella lo ascoltava per lo più in silenziosembravaattenta; quand'egli stornava gli occhile labbra di lei si agitavanoimpercettibilmentecome se avessero mormorato qualche cosa. Ei le trovavasempre la stessa fisonomia fredda e impenetrabile.

«A che pensa?» le domandò un giorno.

Ella lo guardò con tale aria di sorpresa che Giorgio si pentì della domandafatta.

«A nulla... a cercar di sapere se mi sono divertita ieri al ballo in casa deRancye se la musica del Don Carlos mi sia piaciuta.»

Allorché gli dava una di quelle rispostesembrava a Giorgio che glibuttasse in faccia come un'ondata dell'ignoto della sua vitapiena di acriprofumi e di inesplicabili attrattiveche lo stordiva. Egli allora ammutolivae sembravagli di immergersi di bottocon un vago sentimento di voluttà aspra edolorosanel passato di quella donna così indecifrabile. Sentiva una simpatiaamara e un'avida curiosità per colei che gli era così straniera e tantolontana in tanta intimitàe per uno strano fenomenoquei sentimenti ch'ellagli nascondeva più gelosamente e che erano più alieni da luierano appuntoquelli che l'attraevano dippiù. In certi momentisenza menomamente dubitareche fosse perché l'amavaavrebbe voluto ch'ella gli avesse raccontato tutto ilsuo passatoche si fossero confidati l'una all'altro tenendosi abbracciatiavessero dovuto poi piangerne in seguito.

«Vorrei essere suo fratello!» le disse una volta che avea il cuore piùpieno.

Nata si voltò bruscamente.

«Perché?»

«Per non lasciarla mai sola con se stessacome adesso.»

«Ma io sono in buona compagnia invece.»

«Mi perdoni se ho troppo osato!» diss'egli seccamente.

«Al contrario. Perché non sarebbe mio fratello? Giacché non siamo ancoraamicigiacché non possiamo essere cameratigiacché non saremo mai altrosiamo pure fratello e sorella.»

«Vorrei avere il diritto di leggerle nel pensiero. Vorrei avere il dirittodi stringerle la mano in certi momenti...»

«Proteggermiassitermialleviare le mie penee tutelarmida verofratello maggiore. Mi chiami Bebècaro La Ferlita e mi regali dei confetti.»

«Ho tortolo confesso!» disse Giorgio bruscamente ritirando la mano.

«Davvero? le sembro così malata? e crede che pensi alla morte come MariaMaddalena? Se ciò fossevorrei godermi la vita e aver degli amanti... Alloranaturalmente lei sarebbe il primo...»

Alcune altre volte invece era di un'allegria matta e rumorosae allora nonc'era follia che non osasse fare.

Una sera rimandò la sua carrozza e si fece accompagnare a piedi sino allasua abitazione.

Faceva un freddo da lupied ella tremava tuttaimbacuccata com'era. Giorgioera di cattivissimo umoree avea tentato tutti i mezzi per dissuaderla; ellapur sbattendo i denti dal freddorideva di lui e gli diceva che si divertivamezzo mondo. La notte era serena e stellatae fuori porta San Gallo non c'erapiù anima viva; Nata doveva stringersi un po' nelle vesti e contro di lui. Quelsilenzio profondoquell'aria frizzantequell'oscurità punteggiata dalladoppia fila dei fanali schierati sul viale desertoquella solitudinel'allettavanosembravano eccitarla.

«Che peccato non ci sia neppur un briciolo di colpa in quel che stiamofacendo!» gli disse con voce vibrantee i suoi occhi luccicavano nell'ombra;ebbe due o tre colpetti di riso nervoso. «Coloro che ci incontreranno ciprenderanno per due amantinon è veroGiorgio?... Orsùnon mi tenete ilbroncio; diamoci del voi a quest'oralasciatemi fare; voi stesso avete dettoche ho poco da vivere.»

Anche motteggiando aveva sempre di queste lugubri allusioni.

Spesso invitava La Ferlita a colazioneda sola a solosi faceva servire nelsuo salottosul tavolino posto dinanzi alla finestra del giardinocercandodare un sapore di cena sospetta a quella colazione fatta alla gran luce delsolerosicchiandomangiucchiando di tuttobevendo a piccoli sorsi il bordòprescritto dal medico nel bicchiere di sciampagna. Poicolla tazza colmadavantiappoggiava i gomiti sulla tovaglia alquanto in disordinee si mettevaa chiacchierareconfidente ed espansiva come un buon camerata. Si raccontavanoridendo le loro conquistele loro civetterie e le loro follie di giovinezza;tempo addietrogli raccontavasi era invaghita di un giovane studenteproprioquel che si dice un gran monelloma bellobello da dipingerecon occhi nerigrandi cosìe un collo fatto come quello dell'Antinooun collo che bisognavavedere allorquando snodava la sua cravatta rossa e sbottonava il colletto dellacamicia per giocare alla palla fuori porta San Gallo; ella montava a cavallotutti i giorni e andava a caracollare nel viale per vederlo e farsi vedereeluiduro e dispettosacciofaceva il superbo e fingeva di non accorgersi chequella bella signora veniva lì apposta per fargli la corte. Infine quel restioamor proprio ne fu lusingato; e non solo ei cominciò a guardarlama non giocòpiù alla pallacercò di vestirsi meglioed ella se lo trovava sempre fra ipiedial passeggio e nei teatri. Allora non le piacque più e non lo guardòpiù. Peccato! non era più quellosenza la sua giacchetta di velluto!

La contessa e Giorgioin quei momentierano a mille miglia dal pensiero chesi fossero amatiche potessero amarsi; egli trovavasi quasi sempre piùimbarazzato di leiché sentiva di essere ridicolo se non riusciva a mettersiall'unisonoe quelle volte ella lo impacciavagli faceva un effetto singolaregli rendeva difficile la sua parte; ella noella quando voleva avea semprel'epigramma incisivo e prontoqualche volta amaro. Gli diceva: «Ah! se fossiun uomo! Se fossi un uomo come credete che sarei? Povero Giorgionon sareicerto come voiveh!» La tosse spesso le soffocava il riso.

E tutt'a un trattodopo essere stata così carezzevolediventava dispettosaed inquietaguardava lui di soppiatto e quasi con una espressione di rancore;avea delle irritazioni sorde e contenutedelle selvaggie aspirazioni verso nonso chee quando aggrottava le ciglia il suo occhio diventava cattivo.

Una serain una festa da ballocolle guance leggermente incarnate e gliocchi sfavillantirespirando una qualche ebbrezza violentagli premette lamano di nascosto in mezzo al turbine del cotillonaveva la mano secca ecalda.

«Non avete visto come Brenti mi fa la corte?» gli disse.

«Povero Brenti! Non vorrei che diceste la medesima cosa di mecon quelrisolino che avete in bocca.»

Ella si strinse nelle spallenelle sue belle spalle bianche e delicatechesembravano sbocciare fuori dal busto con quel movimento.

«Preferisco il modo in cui me la fa quell'altroguardatequel giovanettinoche sta lìpresso quell'uscio; vedete con che occhi! e così tutta la sera!Avrà quindici anni tutt'al più... bell'età! vorrei essere dentro il suo pettoe sentire come gli batte il cuore quando rivolgo gli occhi su di lui! Davveromi piacecolla sua aria timida e i suoi sguardi di fuoco.»

«Egli si è accorto che parliamo di lui.»

«Come sarà commossopovero bambino!... Vi assicuro che ho provato più diuna volta la tentazione di passargli accantosenza guardarloe di stringerglila mano tra la folla.»

«Perché non rapirlo addirittura nella vostra carrozza?»

«Perché no?» replicò ella con un sorriso nervoso. «Ci son dei momenti incui mi sento montare alla testa il sangue tartaro che ho nelle vene.»

«Ma sentite! alla fin fine tutto ciò non sarebbe mica gentile per me... sefossi innamorato di voi.»

«No» rispose ella in aria distratta; «è veroma siccome non lo sieteenon lo siamoe non lo saremoe siamo invece buoni camerati... Dite un po'setutti costoro conoscessero le follie che facciamo insiemevoi così seriocosì elegante... Come siete elegante stasera! raffermate meglio la vostracamelia... Non è vero che ho un po' della monellaio?»

Verso quell'epoca ella avea avuto un capriccio per il saltimbanco di unacompagnia equestree avrebbe voluto andare al Politeama tutti i giorni. LaFerlita se n'era accorto trovandosi per caso nel suo palchettovedendolafissare lungamente il cannocchiale sulla scena; da buon camerata le fece delleosservazioni alquanto pungenti; ella gli tenne il broncio. «Vedete come sieteingiusti voi altri! se una ballerina vi piacepadronissimi d'andare a vederla edi sbracciarvi in applausi! credete forse che un bell'uomo non possa piacere alpari di una bella donna? e che i ballerini e i saltatori di corda siano fattiper essere ammirati da voi altri signori? Non andate in un museo a vederel'Apollo ed il Bacco? e quel lìguardatelonon è una bella statua di uomo?Io non lo vorrei nella mia anticamerama sulla scena mi piace.»

A La Ferlita saltò la mosca sul serio stavoltama Nata non se ne diede perintesa; era delle prime ad applaudireella che non soleva applaudire giammaienon lasciava mai col cannocchiale l'Antinoo da palcoscenico. Infine quel poverodiavolo s'accorse dell'effetto che facevano su quella gran dama le sue pagliuzzed'oro e la sua zazzera lustra e inanellatae perdette la testa; non aveva piùla solita disinvoltura e la solita smorfia sorridente ed eguale per tuttisalutava sempre una sola parte del pubblico plaudentequello di sinistraspesso s'imbrogliava negli ordegni e nei cordami. Una volta nel saltare sui duepiedi con una graziosa riverenza capitombolò goffamente; tutti gli spettatorinon ebbero che un movimento di simpatia e di commiserazionesolo la contessascoppiò a ridere talmente che dovette nascondere il viso nel fazzoletto. Ilpoveretto non osò più comparire sulla scena.

«Ecco cos'è la gloria!» esclamò gaiamentee scorgendo che anche Giorgiorideva. «Vedete come vanno a finire i miei entusiasmi?»

Poi l'indomani Giorgio la incontrava in un balloo la vedeva nel suopalchetto alla Pergolascollacciatacoperta di pizzicarica di brillantielegantefreddamente alteracoll'ironia sulle labbrail ventaglio in manocome uno scettrorispondendo appena con un cenno del capo agli inchiniprofondial più degnandosi di puntare il cannocchiale dal suo palchetto comeun saluto; l'amicoil camerata del giorno innanzi confondevasi fra la folla chele faceva ressa attornoella lo distingueva appena con un mezzo sorrisonongli apparteneva piùrientrava nella sua sfera a testa alta. Una voltainmezzo ad un ballofu colta dalla tossee quando riapparve nella sala erapallida come cerama si rimise a ballare come prima. Giorgio l'accompagnò sinoalla carrozza; mentre scendeva le scaletutta imbacuccata nel suo mantelloovattatocol cappuccio sulla fronteavvolto il capo nel velo a tre ripresepallida ancora e silenziosa stavoltagli disse con impercettibile aggrottamentodi ciglia:

«Perché mi guardate così? si direbbe che avete paura di accompagnare unamoribonda.»

Egli ebbe per tutta la notte quello sguardo e quelle parole nella mente.

Fu malata per tre o quattro giorninon ricevette nessunoe poi riapparvenuovamente in mezzo alla folla dei teatri e delle feste un po' più pallidaunpo' più dimagratama assetata di vita e di piaceri più di prima.Avvicinandosi la primaveracominciava a parlare di bagni e di viaggie facevadei progetti coi suoi amici che contava d'incontrare alle acque o in Isvizzera.

VI

Verso la fine di marzo La Ferlita era stato nominato vicesegretario e dovevapartire per Lisbona. La contessa aveva dato un thè in questa occasioneinvitando de Rancyla viscontessaColliSan Damianola signora Grandi ealcuni altri. Giorgio era rimasto l'ultimo ad andarsene.

«Addio» gli disse Nata finalmente stringendogli la mano«o piuttosto arivederci: ci vedremo ancoranon è vero?»

«Certamente»

«Per quanto tempo ancora?» - a lui parve udire un altro suono in quellavoce; ma subitocolla calma consueta elle riprese: «Quando partirete?»

«Fra tre o quattro giorni.»

«Il Portogallo è un bel paesee voi sarete felice!»

Erano presso l'uscio a vetri che metteva nel giardino; Giorgio parlava dellenoie della partenzae Nata colla fronte appoggiata ai vetri sembrava ascoltare;la luna segnava il viale di larghe striscie d'argento attraverso le ombresottili del cancelloe faceva la contessa più pallida in viso. Ad un trattoGiorgio volgendosi verso di lei vide due grosse lagrime che scorrevanolentamente sulle guance; quella vista lo colpì di stupore; tutto il passatotutte le contraddizionitutte le stranezzetutte le rivolte di quella donnagli balenarono ad un tratto dinanzi agli occhigli si spiegarono proprio colbagliore accecante e sfuggevole del lampogiacché la fisonomia di lei avearipreso subito la maschera rigida e calma. Ella lo avea amatolo amavaserbando sempre quel viso impenetrabile. Quelle lagrime che venivano dal fondodel cuore e che sembravano scorrere sul marmodovevano molto costare a quelcarattere di sasso. Egli le afferrò la mano con impeto e domandò con vocetremante:

«Che avete?»

Nata si voltò come una leonessa ferita; mosse le labbra due o tre voltesenza dir nulla e si svincolò vivamente dalle mani di lui. Poscia bruscamentespalancò l'invetriata e uscì in giardino a capo scopertonella notte fredda ebianca di luna; e siccome Giorgiosenza saper quel che si facessesenza sapereche pensare di quella strana creaturatentava trattenerla:

«Non volete?» diss'ella continuando ad andare. Avea la voce leggermenteraucacon un tono di sarcasmo quasi amaro.

«Non voglio che vi uccidiate!»

Ella si fermò di botto e gli lanciò un'occhiata dura e scintillante.

«Che importa a voi?»

«Non mi credete vostro amico?» balbettò Giorgio.

«Amico? siamico! Vi credo mio amico. Ma ho tanti amici! San DamianoCollide Rancy... e dai miei amici non mi piace esser contraddetta.»

«Perdonatemiè stato per la prima e l'ultima volta.»

Senza badare al tono di quella risposta e cambiando improvvisamente il tonodella sua:

«L'ultima? che brutta parola... Infatti... è vero. Chissà se ci rivedremomai più? chissà?»

Il freddo la faceva rabbrividire e tossire leggermente.

«Piuttostose voletedatemi il mio scialle: è sul canapèpresso lafinestra.»

Poiincrociandosi lo scialle sul pettoe fissandolo in viso con una granserietà:

«Vedete che son ragionevole infinee che finisco col dar retta ai mieiamici.»

Così dicendo andava diritta pel vialeun po' stretta nelle spallepallidae freddacolle labbra increspate dall'aria frizzantealquanto imbarazzatadalla veste che il vento le avvolgeva alle gambe e sbatteva col fruscio di unavela allentata.

«Addio»gli ripeté allorché furono al cancello. «Ci rivedremo ancoraun'ultima volta però.»

Giorgio rimaneva mutolosopraffatto dalla energia di quel carattere; leteneva la manoe la stringeva fortesenza avvedersene.

«Infatti... non è meglio che sia l'ultima?»

«Perché?» domandò Nata coll'accento più naturale.

«Perché ho il torto d'amarvi!»

Ella lo guardò attonitae rimase zitta un istante.

«Voi?» esclamò con stuporee poscia con uno scoppio di risadelle risache lo schiaffeggiavano sulle guance: «Voi?... Ah!»

Giorgio le lasciò la mano con un brusco movimento; sentì come una vampa chegli montò dal cuore alla testa; ma da lì a poco si mise a rideree anche luiun po' a denti stretti.

«Guardatecon una sera sì bella! siam solidi nottestringendoci lemanifra lo stormir delle fronde e alla pallida luce dell'astro degli amanti.Pel quarto d'ora devo adunque essere il vostro Romeonon fosse altro che pelcolore locale. Se vedeste come siete bella e vaporosa a questo lume diluna!...»

Nata non cessava di ridere a piccoli scoppietti - era un riso strano che nonsi accordava coll'espressione dei suoi occhi sbarrati. «Avete ragione. E pelquarto d'oraditemiquante siamo le Giuliette? Iola signora che menate aspasso alle Cascineforse la viscontessa de Rancychi d'altri?»

Giorgio si strinse nelle spalle. Allora ellaprendendogli le maninuovamentegli disse con voce carezzevole: «Povero Giorgio! Sono stata un po'civetta con voipel passatomolto tempo addietromolto tempo! Adesso vivoglio beneproprio voler benesapete. Ma amarcia parte il color localenonci amiamo né voiné io... A meno che non mi amiate come amate la vostra belladelle Cascine. Quanto a me...»

«Quanto a voi?...»

«Quanto a me è meglio che restiamo amiciRomeovolete? Meglio per voimeglio per memeglio per tutti.»

In così dire si mise a tossire di nuovo. La Ferlita le prese il braccio conamorevole violenza.

«Ebbenecome vostro amico datemi rettarientrate in casa. Così viuccidete.»

Nata si lasciò condurredocile e obbediente come una fanciullina; Giorgiorianimò il fuocoavvicinò la poltrona al caminole fece scaldare i piediintirizziti. Ella era pallidae di quando in quando si stringeva nelle vesticon un brivido di freddo; la fiamma alta la faceva sorridere. Ei non diceva piùverboe sembrava prendere sul serio la sua parte; quando si fu riscaldataeche il riverbero del caminetto cominciò a dare un po' di colore a quel viso dicerale disse:

«Vi prego di scrivere queste quattro parole come se le pensastea guisa diricordo per l'ultima sera che abbiamo passato insieme giocando a Giulietta eRomeo. 'Vi amopartoaddio'.»

Natasenza esitaresenza voltarsi neppure verso di luirisposetranquillamente: «È inutileperché ve l'ho già scritto un'altra volta.»

«Voi dunque!...»

«Se me lo domandate per confrontare le due scritturevi risparmio cotestoesame; se c'è un rimprovero nelle vostre parolel'accetto senza cercare discusarmi.»

«Giacché non mi amate piùnon voglio esaminar più nullanon mi lagno dinullanon vi rimprovero nulla.»

Ella rimase cogli occhi fissi sulla fiamma.

«Credevo non vedervi piùecco perché vi ho scritto così»aggiunse Natada lì a poco freddamente e risolutamente.

Giorgio sogghignò.

«Volete che sia vostra amante?» diss'ella con un accento bruscoma calma erisolutapiantandogli in volto quel suo sguardo selvaggio. E siccome La Ferlitaattonitonon trovava una sola parola:

«Volete che mi dia a voidomanistaserafreddamentedeliberatamentesenza amarvi punto? Volete?»

«Che donna siete mai?» gridò egli dopo un istante di quel silenziostupefatto. Nata scoppiò in un riso stridente che la fece tossire e leimporporò le gote:

«Avete delle curiosità malsaneamico mio. Io non ho mai avuto la pretesadi arrivare a saper tanto... e forse ho fatto meglio.»

«Vi dirò quel che sono io. Sono uno stupidoche mentre voi gli ridete infaccia vi ama come un pazzo. Vi ho amata per tre mesi senza saperlosenzasospettarlocredendo che quella prima fase donchisciottesca del mio sentimentoavesse realmente dato luogo a una semplice amicizia. - Voi eravate tutt'altradonna. Ad un tratto questa passione m'irrompe in cuore come una febbrecome undelirio. Le vostre parolei vostri sorrisii vostri sarcasmi mi frustano ilsangue nelle venee adesso capisco come si possa uccidersi per svincolarsi dalvostro fascino funesto.»

A queste ultime paroleella che ascoltava immobile e senza guardare Giorgiotrasalìe si volse repentinamente verso di luipiù pallida di primapiantandogli in volto gli occhi spalancati e pieni di una espressione selvaggia.

«E voi... vi uccidereste... voi?»

«A che scopo? per rendermi ridicolo anche così?...»

«Infattisapete cosa ne penserei? Che vi uccidereste per la vanità di farparlare di voi nelle conversazioni e nei giornali. Adessogiacché mi ragionatedi amoreascoltate.» Ella era rivolta verso la fiammasembrava in volto orabianca come una statuaora livida come un cadavere; parlava lentamenteconvoce ferma e sorda; teneva gli occhi chiusie un sol muscolo del suo viso nonsi muoveva. «Io ho amato... una volta... ho amato quell'uomo di cui mirinfacciate la morte... l'ho amato come voi altri non sapete amareiodonnasenza cuoree non sono morta come un personaggio di tragedia... almeno allora.Era un ribelle condannato all'esiliocredo anche un ebreosenza altraricchezza che la sua carabina di cacciatore. Mi odiava perché io ero dellarazza dei suoi padronidi coloro che aveano gettato lui in Siberia e avevanobastonato le sue donne - l'amai perché mi odiavaperché mi fuggiva; c'era unabisso fra di noie la vertigine mi gettò nelle sue braccia.»

Guardò La Ferlitae lo vide pallido anch'esso.

«Mi amate veramenteGiorgio?»

Egliche stava con la fronte fra le manilevò il capo e le lanciò unosguardo che rintuzzò quello di lei.

«Quanto durerà il vostro amore?»

Giorgio chinò il capo di nuovoe non rispose.

«Vi domando se potete dirmisulla vostra parola d'onoreche mi ameretesempre cosìanche quando sarete stato il mio amante; vorrei sapere che cosafareste se una donna più bella di meo che vi piacesse dippiùche avessesoltanto il vantaggio di non essere io stessauna duchessauna camerieravistringesse la mano in un balloo entrasse sfrontatamente in camera vostra: cosafaresteLa Ferlita?»

Giorgio taceva semprecome annichilito. Ella seguitò:

«Colui dicevami che lo rendevo feliceche mi avrebbe amato eternamentecheavrebbe voluto morire per mee siccome era bello e poetaun po' come voidiceva tutto ciò in modo seducente; tutti i nostri vicini di campagna parlavanodelle nostre follie. Che m'importava? io ero stata felice di provare a lui chegli gettavo sotto i piedi anche la mia riputazionecome gli avevo gettato ilmio orgogliole mie ripugnanzee tutto. Mio marito non mi amanon è gelosoma è perfetto gentiluomoe non potendo battersi col suo rivaleavrebbe saputoche il suo dovere era di bruciare le cervella a lui e a me; allora trovavasi alCaucaso: dopo sei mesi fui costretta a raggiungerlo a Pietroburgo per passarvil'inverno. Mi parve di morireDolski mi scriveva delle lettere che mi davanodelle notti insonni e febbrili. Finalmente perdetti interamente la testae inun breve intervallo che il conte era assente mi misi in viaggiofeci il lungoviaggio nel cuor dell'invernoa cavalloin carrozzain slittacome poteiper andare a raggiungere il mio amanteio che avevo sdegnato veder ai mieipiedi dei principi... quell'uomo ai piedi del quale mi sarei inginocchiata... earrivando all'improvviso seppi che durante la mia lontananza egli aveva avuto'una distrazione'e che un'altra... non so chi sianon volli saperloaveaprofanato la mia memoria e il mio amore. Ripartii senza vederlosenza fargli unrimprovero: mi ammalai lungo il viaggioe quando giunsi a Pietroburgodisseroch'ero etica. Quell'uomo pure mi amava alla sua manieraalla maniera di voialtri; ruppe il bandoa rischio della vitae mi corse dietro come unforsennato. Io ero in letto con la febbree l'udii piangeree implorareepicchiare della testa sul limitare del mio uscio. In quel momento non seppi piùperdonare a quell'uomo che mi uccideva di non avere almeno la dignità dellacolpa. La mia caduta non avea più scusaera una cosa ignobile... Avrei volutosalvare almeno il sentimento che mi avea fatto cadere... Allora...» si nascoseil viso fra le mani «non vi dirò più altro... Quell'uomo si uccisecomevorreste far voi drammaticamentecon una pistolettata rumorosa... Iovedetenon sono ancora morta...»

Ella avea un'espressione intraducibile nella fisonomia decomposta; sembravaun'altra donna; parlava con una voce che Giorgio non avea mai udito.

«Ecco cosa penso dell'amoreed ecco perché non avrei dovuto vedervi piùdopo avervi inviato quel biglietto»; disse poscia con voce sorda.

«Ditemi questo almeno!...» esclamò Giorgio con un gran turbamento. «Quelche mi avete scritto... lo pensavate allora?»

«Si!» rispose un po' pallidama guardandolo fisso.

Egli balzò in piedi.

«Perché dunque m'avete detto delle cose orribili? Siete senza cuore e senzapietà! che m'importavi amo! Se quell'uomo fosse vivo lo uccidereioucciderei voima vi amo!... vedete...»

Nata gli voltava le spallesprofondata nel seggiolonee non risposealtrimenti che stendendogli la mano al di sopra della spalliera; ei l'afferròcon impetoe stava per coprirla di baci quand'ella gli disse con voce calma:

«Buon viaggioLa Ferlita.»

VII

La contessa pagò la passeggiata al chiaro di luna con parecchi giorni difebbree Giorgioche non era stato più in casa sualo seppe al Circolodesinando con San Damiano e Colli. Ella non s'era fatta più vivae non gliaveva scritto un sol rigocome soleva fare pel passato allorché desideravavederlosicché poteva ben credere ch'egli avesse preso alla lettera il buonviaggio datoglie fosse partito per Lisbona. Nonostante la sera istessa andò achiedere notizie di leie mentre il domestico gli diceva che la signora stavamolto megliosopraggiunse Natavestita per uscirecol mantello sulle spalle.Vedendo La Ferlitagli tese amichevolmente la manocome nulla fosse stato fradi lorodicendogli: «Sto megliograzie» Giorgio balbettava qualche parola.«Vado alla Pergola; volete accompagnarmise non avete nulla da fare?»

Da porta San Gallo alla Pergola scambiarono poche paroleGiorgio scusandosialla meglio per non esser venutoed ella dicendogli che alla fin fine non erastato nullama che si era annoiata moltissimo. Sembrava che non ci fosseun'ombra d'imbarazzo fra di loroeppure divagavano troppo nei discorsiemettevano contemporaneamente il capo allo sportello ad ogni voltata che facevala carrozzaper vedere se fossero arrivati. Nata intanto si snodava i nastridel cappuccioe la seta dell'ovatta rendeva un fruscìo checosìnell'oscuritàavea qualcosa di vivoe carezzava l'innamorato nelle piùintime fibre. Attraversando il vestibolo del teatroGiorgio si scusò di nonessere in giubba e voleva lasciarla sul limitare del palchetto.

«Non fa nullarimanete. Vi metterete in un cantoe discorreremo lostesso.»

Così dicendo lasciò cadere il mantello nelle mani di Giorgioe si avanzòsul davanti del palchettocolle braccia nudegli omeri un po' magri e cometrasalenti alla prima impressione dell'ariail capo ornato di fioril'occhiobrillante sul viso imbellettatoappena accerchiato da un leggiero lividore;prima di mettersi a sedere si fermò rittaappoggiandosi colla mano sul vellutodel parapettoe passò in rivista col cannocchiale le acconciature elegantisalutando le amiche con un piccolo cenno del capo o con un sorriso. Poi siassisesciorinando le balzaneassettandosi sul busto la vita scollacciata condei piccoli movimenti di spalle. La Ferlita fu completamente dimenticato.Durante i due primi atti ella non ci fu che per il pubblicoo per se stessaoper lo spettacolo. Fra un atto e l'altro Giorgio era andato a comprarle deidolcie al suo ritorno la trovò come l'avea lasciataattentissima all'opera.Ella lo ringraziò con un cenno del capoma il cartoccio rimase intatto sulparapetto. Fino allora non avea rivolto a Giorgio una sola parola.

«Avete fatto bene a non partire senza dirmi addio» gli disse infine colviso rivolto verso la scena«sarei stata molto dolente se non vi avessivisto.»

«Scusatemianzi. Ho saputo soltanto oggi che siete stata ammalata.»

E dopo un momento gli stese la mano.

«Ci lasciamo amicinon è vero?»

«E ci rivedremo più amici di primaspero.»

Nata gli rispose con una stretta viva e bruscama tosto ritirò la mano e simise a guardare col binoculo in un palchetto di faccia. Poscia posò ilcannocchiale col braccio disteso sul parapettoe appoggiò le spalle alloschienale della poltrona. Sembrava che lo spettacolo l'assorbisse completamente;di tanto in tanto passavano delle correnti di fluido misterioso in fondo allesue larghe pupille grigiee le oscuravano come se le intorbidassero. A poco apoco gli occhi si fecero immobilisi dilataronole labbra si strinseroeparve che il viso si profilasse; appoggiò anche il capo alla parete delpalchettoun po' indietro e all'oscuroe più non si mosse; soltanto le trineche le velavano il petto si gonfiavano interrottamente. Giorgio non osava dirnulla ed evitava di guardarla. Infinesorpreso dalla durata di quellaimmobilità e di quel silenziosi chinò alquanto verso di lei per domandarlecosa avessema vide che teneva gli occhi chiusie gli sembrò scorgere dellelagrime luccicare fra le lunghe ciglianell'ombra. Egli sentì come un'ondaimprovvisa di amarezza e di voluttà che gli addentava il cuore e lo afferravaalla gola: erano le stesse lagrime dell'altra voltale quali sgorgavano dalpiù profondoribellischiveamarissime su quel viso impenetrabilesul quales'indovinava solo la lotta interna e la collera che sarebbe scoppiata se ellafosse stata sorpresa in quel momento. Dalla platea e dai palchi si applaudivafragorosamente il duetto del Ruy Blas; Nata si scossesi alzòbruscamentevolgendo in là il capo con un mal celato dispettoe volleandarsene; avea la voce leggermente velata. Giorgio l'aiutava a mettere ilcappuccio nel fondo del palchetto; ella lasciava faree lìnella semioscuritàritta e palpitantegli afferrò all'improvviso le tempiee pallidaseriarisolutacoll'occhio luccicantesenza dire una parolagli appoggiòlungamente sulle labbra le labbra umide e calde.

Giorgio l'abbracciò quasi fuori di sé; ella gli appoggiò le mani sulpettoe s'irrigidìcoll'occhio sbarrato in quello di luisenza vederlo; poisi svincolò dolcementeed uscì dal palchetto. Ei la seguiva barcollandosbalorditosoffocato dalla violenza di quella passione che irrompeva ad untratto come una tempesta. Nata attraversò il vestibolo a passi affrettati echiusa nel suo mantello. Lungo tutta la via non aprì bocca; si tennerincantucciata nell'angolo della carozzaal buiostringendosi nelle vestiequando i fanali delle cantonate mettevano un raggio guizzante di luce nel fondodella carrozzaGiorgio sorprendeva quegli occhi lucentifissi su di luiconun che d'implacabile che faceva quasi paura su quel viso bianco e rigido.Infinecedendo a un impulso irresistibileLa Ferlita afferrò vivamente lamano di lei che dapprima rispose alla sua stretta con una pressione nervosabruciante di febbre sotto il guanto; poi si svincolò bruscamentequasi concollera.

«Che avete?» le domandò.

Ella rispose con voce sorda:

«Mi disprezzo!»

In questa il legno si fermava. Nata discesegli strinse la mano senzaguardarlo; sentendo la stretta di quella di luimutadisperatasupplichevolegli piantò in viso quello stesso sguardo del palchettoduro e freddo comel'acciaioluccicante ai fanali della carrozzae con accento breve e secco:

«Non vi amosapete» disse «no!»

E lo inchiodò sul marciapiede con quello sguardocon quelle paroleallontanandosi senza dir altro.

Era sera di ricevimento in casa de Rancye la viscontessa vide giungere LaFerlita così tardi e così stralunato che gli andò incontro premurosamente.

«Cos'è stato?»

«Nulladomani parto per Lisbona e sono venuto a dirle addio.»

«Com'è pallido!»

«Sarà il freddo; avrò fatto le scale molto in fretta. Quanta gentestasera!»

«Ha vista la contessa?»

«Sisono stato alla Pergola con lei.»

«Sta meglio dunque?»

«Molto meglio.»

«E lei... partirà proprio?»

«Ho già fatto le mie valigie.»

«Amico miodalla sua cera ho paura che perderà la corsa e che tornerà adisfarle.»

«E il mio dovere? la mia carriera? il mio ministro?... Se ciò per disgraziaavvenissela prego di rendermi un vero servigio: procuri di farmi condurre sinoalla frontiera dai carabiniericolla camicia di forza per giunta.»

La viscontessa gli tese la manofra seria e ironica:

«S'è cosìtanto meglio! buon viaggio dunquee a rivederci.»

In quella sopraggiunse il visconte.

«Partite finalmente? Lasciatemene congratular con voimio caro; prima ditutto per la vostra carrierae poi per cento altre cose.» Cosìattraversandole sale a braccetto. «Fate benissimo ad andarvene in questo momento; sietel'amante della contessalo dice tutta Firenzeè una bella fortunanon dicodi no; ma è anche una bella fortuna finirla a tempo; suo marito potrebbecapitare da un giorno all'altro; certamente che un incontro con lui non vimetterebbe in pensieroma sapetenella vostra posizione bisogna pure aver deiriguardi; un affare di questo genere con tutt'altra persona non vi nuocerebbeanzi! ma il conte è uno dei beniamini della corte di Pietroburgoe voi nonsiete ancora ambasciatore. Poi cosa potete desiderare dippiù? A Lisbona delresto ci sono della bellissime donne. È vero che la contessa non ha da temerneil paragonealmeno per voi che ne siete innamorato: è questione di gusti.Venite di là a fumare un sigaro. Insomma si può essere innamoratilo so; èuna donna bizzarratutta nervitutta a faccettecome un richiamo da allodoleè cosa piacevolissimainteressanteche vi agitavi scuotevi fa vivere inun bagno caldo... so cosa vuol dire amare una di queste donnesia detto ora chela viscontessa non può udircisi può perderci la testama ecco dove staappunto il pericoloamico mio; noi abbiamo la testa sulle spalle per fare inostri affari e il nostro interesselo sapete meglio di mee non esser ridottia tirarci su delle pistolettate come quel povero diavolo di Dolski.»

«Conoscete anche voi quella storia?»

«Chi non la conosce più o meno a Pietroburgo? Quella è una donnapericolosaper bacco!bellabellissimaseducentissima; ma da far paura alBaiardo degli innamorati; io ho conosciuto quel polacco a Varsaviaera ungiovane bello e distintoma era anche un po' esaltatotanto da compromettersied esser mandato in Siberiae da far poi quel che ha fatto... Infine perché?lo saprete anche voi - per la miseria di un amoretto che s'era permesso mentrelei era a Pietroburgoe pensate che doveva starci sei mesi! La contessa deveavere delle idee singolari sulla fedeltà mascolinae punto comode! Egli ruppeil bandoa rischio di tuttocorse a buttarlesi ai piedi; ella non vollevederloe gli fece dare quattromila rubli per mezzo del domestico. Il vostrosigaro non accende beneprendetene un altroson degli avana fabbricati inIsvizzerache mi appestano la stanza. Sentite che donnamio caro! Gli diceva:'Vi ho comperatoma non vi ho amatoora vi pagol'amore è salvo e senzamacchia' - l'amore è la sola divinità di costei; egli le scrisse collafebbrile concisione della disperazioneche se non gli avesse perdonatosarebbesi ucciso sotto i suoi occhi. 'È il solo mezzo di riabilitarci entrambi'gli fece rispondere.

Giorgio fumava e sembrava distratto. Infine gli disse colla maggiore calmadel mondo:

«Dite delle cose giustissimecaro visconte; ma quando siete statoinnamoratocosa avete fatto?»

«Quello che state per fare voi. Non sono un eroenon ho la pretesa divincere né me né gli altri; batto in ritirata: quando mi accorgo di essere sulpunto di fare una corbelleriaci metto di mezzo una bella distanza; il megliosarebbe di metterci un'altra donna - chiodo scaccia chiodo; il mare vi dà dellemelanconie noiosissimei monti vi danno la nostalgiala frontiera vi pare chevi stia sullo stomaco - ma la ritirata ad ogni costoa costo della nostalgiaacosto dello spleense non potete metterci un'altra donna; è questioned'otticaamico mioquando sarete di là dalle Alpi finirete col far leboccaccie alla corbelleria che stavate per fare. Infine spero che questo viaggiovi sarà utile.»

«Vi ringrazio.»

«E scusatemi anchecaro La Ferlitase ho chiacchierato troppoa fin dibene peròvi prego di esserne convinto. Ho detto delle cose che forse inquesto momento non avreste voluto udire; quel che ho raccontato della storia delpolacco avrà potuto farvi dispiacere; ma in fondo spero che gioverà. È unadonna terribilecaro miocon idee dell'altro mondoma che nel nostrodiciamolo fra noifanno un effetto assai singolaree credo vi aiuteranno apartire allegramente.»

«Non parto più.»

«Siete matto!»

«Lo so benissimoma non parto più.»

«Per quel che vi ho raccontato?»

«Forse...»

«Caro mio... Io sono stato certamente più matto di voi a non prevederlo.»

L'indomaniquando Nata meno se lo aspettavaarrivò suo marito.

Marito e moglie solevano farsi buona compagnia per tre o quattro mesidell'annoallorché s'incontravano alla capitale; ma il resto del tempo ilconte era sempre lontano e in servizio. Egli dovette indovinareo si aspettavala sorpresa della moglie.

«So che state assai meglio» le disse«e credo che vorrete approfittaredella buona stagione per tornare in Russia. Ho chiesto un permesso di quindicigiorni e son venuto per avere il piacere di accompagnarvi.»

Il conte era un gentiluomo sui 40 annialtobiondoun po' calvo sullasommità della fronte e invecchiato innanzi tempo; ma nel suo aspettonelle suemanierein tutto ciò che faceva e diceva aveva una rigidità militareuncerto che di calmo e risoluto cheaccompagnato a quel viso pallido e disfattoimponeva soggezione mista a diffidenza. Avea degli sguardi freddi e penetrantiche infastidivano.

«Grazie» rispose Nata.

Però la sera istessa ricevette una lettera misteriosa che le fu recapitatadi nascosto per mezzo della sua cameriera.

«Tuo marito ha dei sospetti. Guardati.»

Il conte non mostrava aver nulla di nullae passò il giorno visitando legallerie e i musei. Rientrando in casa vide dei preparativi di partenza.

«Quando volete partire?» domandò alla moglie.

«Anche domani; sono pronta.»

La Ferlita intanto non sapeva nulla di quell'arrivoed indugiava adaffibbiare le sue valigie. La sera dopo trovò una lettera che l'aspettava sulsuo tavolino:

«Speravo vedervi un'altra volta. Quando ci siamo lasciati l'altro giorno néio né voi sapevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio. Ho moltosoffertosapete; ma nel momento in cui vi scrivoaccanto a quel medesimotavolino sul quale avete appoggiato la mano tante voltesembrami di soffocare.Vorrei morire prima di di partire. Pochi giorni sono eravate quiseduto sulcanapèvi rammentate? avevate il gomito sul bracciuoloe il cuore mi sispezzava pensando che fra non molto ci saremmo lasciati per sempre. V'erano deimomentiquando meno lo sospettevatein cui avrei voluto soffocarvi nelle miebraccia come una pantera gelosa. Vi amo! vi amo! ve lo dico adesso che non vivedrò mai più; ve lo dico per inchiodarvi queste parole nel cuorecome ho lavostra immagine inchiodata nel mio. Sentiteora che ve l'ho dettoora che nonmi vedrete piùvoi non mi dimenticherete giammai; nessuna passione dell'animovostro mi sarà rivale: l'amoreil giuocol'ambizionetutto sarà meschinoper voi al confronto della memoria di colei cui non avete baciato un dito. Eccocome voglio essere amata: se fossi stata vostra amanteforse saremmo finiti pervoltarci le spalle senza dirci addio; ogni giorno che avremmo passato insieme ciavrebbe rapito un'illusione; l'oggetto del mio amore dev'essere superiore atutti gli altri. Voglio pensare a voisemprenei lunghi dolorinellasolitudinenegli scoramenti che mi aspettano; voglio pensare che mi ameretecome cosa al di sopra di voiche mi cercherete dappertutto col pensieroanchequando sarò morta. Vi condanno a pensare a mevi condanno ad adorarmi inispiritocome una divinitàperché vi amo! Voi sapete che mi rimangono pochimesi di vita - voglio sopravvivere in voi. AddioGiorgio! vi faccio unapromessa; verrò a morire vicino a voinon vi vedròavrò la forza di morirein silenzioma voi penserete a menon è vero? Direteforse in questomomentoella è làche si muove. Guardatepiango e vi assicuro che non miaccade di frequente! Vorrei piangere sulle vostre ginocchia.»

L'orologio sullo scrittoio suonava gli ultimi rintocchi delle ore che Giorgionon aveva udito; il vento faceva piegare la fiammella della candela; ei siaccorse allora che la finestra era aperta. La via era silenziosa e desertainaltoal di sopra dei tetti che confondevansi vagamente nell'ombraformicolavano delle stelle. La Ferlita stette qualche tempo alla finestraassortosenza sapere quel che stesse pensando; le ore suonavano a tutti gliorologi della città con toni diversi; di tanto in tanto si levava in mezzo alsilenzio il fischio della stazione di Santa Maria Novella; l'unico pensierodicui egli avesse una percezione distintaera che giammai avea creduto ci fosserotanti orologi a Firenze. Finalmente uscìe andò nel viale Principe Amedeosenza sapere egli stesso perché. Il villino avea la consueta fisionomia.Qualche volta La Ferlita s'era trovato a passare a notte avanzata dinanzi aquelle finestre - allora se ne ricordava - e avea visto così quella casacollasua facciata biancastra e muta su cui si allungavan le ombre degli alberie coisuoi contorni che al lume del gas uscivano dall'oscurità con un certo rilievo.Il lampione più vicino del marciapiede lambiva di sbieco le lancie dorate. Alcominciare del viale c'era ancora il solco netto delle ruote di una carrozzasignorile; d'insolito non c'era che l'appigionasiin altoappeso alcancelloche di quando in quando si muoveva nell'ombra agitato dal vento.

VIII

Era passato del tempo! Babbo La Ferlita era morto; Giorgio avea preso moglie;noi eravamo invitati per un'altra festa di famigliala nascita del suoprimogenito.

C'erano i medesimi invitatile medesime signore con degli altri vestitiimedesimi signori con le stesse cravatte bianchela stessa suocerache andava eveniva nelle camera della sposa collo stesso fazzoletto ricamato e più gialloche maila madesima sposina bella come allorasorridente come allorama inun'altra manieraun po' pallida ancoraseduta nella sua gran poltronaeinfine quel medesimo sposobel giovane sempre ed elegantein giubba e cravattabiancama che avea un'aria singolare con quel fagotto di batista e di trine cheportava attorno fra le braccia trionfantesenza accorgersene ma di buona fedefacendo ammirare a coloro che lo volevano e a coloro che ne avrebbero anchefatto a meno una cosina informeche si moveva con contorcimenti bruschiimpacciatiche faceva delle smorfiee di quando in quando metteva una speciedi belato.

«To'! par vero? Eppure è proprio La Ferlita col suo marmocchio inbraccio!» borbottò Crespiscapolo impenitentementre che Giorgio ci passavavicino.

«Lascia vedere! ha diggià i capelli!» esclamò un invitato ufficioso persoffocare l'osservazione del Crespi.

«Sì» rispose Giorgio sorridendo«è biondo.»

«Tutti i bambini sono biondi»disse Vernetti.

«Come tetutto tela fronteil naso... guarda se non è il naso diGiorgioeh?»

«Ma di naso sembra invece che non ne abbia punto.»

«Strano! come siam fatti... quando veniamo al mondo!»

«Caro Crespi» disse alfine La Ferlita«quando avrai dei figliuoli saraianche tu come mete lo dico ioe sarai scioccamente giulivo di sentirtisgambettare fra le braccia il tuo piccolo bamboccio.»

«Eh!... lo credo» rispose Crespi colle mani in tasca «quando li avrò.»

Nell'altra camera le intime amiche e le matrone facevano corona alla mogliedi Giorgiocolmandola di carezzedi suggerimenti e di consigli; il bambinopassava di mano in mano come un balocco. Giorgio quando la moglie era sola le siavvicinavasi chinava sul bambino che ella tenevasi in grembole sorrideva ele diceva qualche parola sottovoce. Attraverso le tende dell'uscio quella grandepoltrona foderata di guancialiin quella gran camera debolmente illuminataquella donna vestita di biancocol viso abbattuto e giulivoe quei baffibiondi messi lì vicino a quella cuffiettacon quel vagito sottile che siudivae quella mano candida come cera che si posava su quella giubba neravisti da quella sala riboccante di luce e affollata di signore eleganticopertedi trinescintillanti di gemme e colle spalle nudee di giubbe nere cheronzavano e s'aggruppavano come mosconi in un meriggio d'estate «facevano uneffetto singolare»diceva Crespi. «In parola d'onorequando avrò moglie efigliuolicome dice Giorgiovoglio mettere tanto di catenaccio alla porta dicasa!» borbottò cavando finalmente le mani di tasca.

Gli uominialmeno quelli che non avevano a chi fare la cortea poco a pocos'erano ridotti nel gabinetto di Giorgioa fumare e a ciarlare di donne e dipolitica. Falchi aveva comperato una bellissima pariglia e ce la fece entrare arimorchio delle voci di guerradelle rimonte della cavalleriae delle speseenormi che sostiene lo stato pei depositi di stalloni. Bassano avea fattoun'eccellente speculazione sulla rendita lo stesso giornoe tirò in campo illistino della Borsa a proposito di quanto costano le donne. Giorgio andava eveniva. «La Ferlita ci parlerà di balie»disse Crespi all'orecchio del suovicino. «Ne ho abbastanzacaro mio; preferisco andar a discorrere di mode conquelle signore.»

Quei giovinotti azzimati e in cravatta biancasdraiati sui canapè e sullepoltrone col sigaro in boccaaveano finito col parlar tutti di donnesenzamolti riguardicome se di là non ci fossero ancora delle signore cui avevanrivolto cinque minuti prima delle cose profumate e vaporosearrotondando lefrasi e l'atteggiamento. Ciascuno diceva la suaspesso tutti in una voltaspifferandone di tutti i colori colla maggiore disinvoltura. Se quelle dame sifossero data la pena di origliare dietro l'uscione avrebbero sentite dellebelline. «La donna è il più bell'animale della creazionema ha degli istintitroppo complicati.» «Crespi perde il suo tempo colla baronessasenzaaccorgersi che Giulio è arrivato col primo treno.» «Sentitemio caroio stoper l'emancipazione della donna; allora verrà la nostra volta di esserecorteggiatie di permetterci dei capriccie dei nervi.» «Sai di Alfonso?Alfonso il bello? è proprio una disgrazia! Sembra che il suo cameriere non siapiù un ladroe che la padrona ne sapesse già qualche cosa anche prima che iquesturini gli abbiano messo le unghie addosso; insommail fatto è che Alfonsoin persona ha dovuto sbracciarsi per farlo mettere in libertàper timore dipeggio.» «Crespi è un imbecille con tutto il suo spiritola baronessa lomena pel naso e gli fa toccare con mano che Giulio e i suoi tre predecessori nonsono mai stati altro che degli amici.» «Quel povero barone ne vede di tutti icolori!» «Piuttosto non vede nulla di nulla.» «I Turchi sono la gente piùspiritosa del mondo.» «Hai visto la marchesa stasera? che spalle!» «E quantapolvere di riso!» «E la Staël da strapazzocon quei ricciolini e quell'ariaispirata che la fa sembrare colpita da cataratta.» «Non ho voluto più sapernedi Ersilia; mi annoiavacaro mioera sempre la stessa cosa!» «Caro Bassanola donna è un oggetto di lussoquando potrò permettermi sei cavalli inscuderia invece di dueallora mi regalerò un'amante.» «Amici mieivoi ditedelle bellissime cosema io ho amato due voltee ne ho abbastanza; la primaera una civetta che mi faceva stracciare un paio di guanti tutti i giorni; laseconda una sentimentale gelosa dello zeffiro e del fumo del mio sigarocuibisognava dare delle spiegazioni pel mazzolino che mi regalava la fioraiae chemi versava periodicamente delle lagrime sulla cravatta; in fede mia preferiscoil celibato dell'animaa meno che non trovi una Venere bestia come un'oca.»«E La Ferlita! Chi avrebbe potuto prevederlo?» «Io lo avevo previstoché lovedevo a Firenze spendere a rotta di collo.» «Ecco quel che si chiama fare unafine!» «È una vera finecon tanto di croce.» «Maamici miei» interruppeDe Natalech'era tagliato un po' alla carlona«voi altri parlate come se nonaveste né madriné sposené sorelle.» «Oh! quanto alle spose... se cifosse al mondo un'altra poveretta buona e dolce come la miaconsiglierei atutti i miei amici di sposarla.» «Caro De Nataleuna sorella non è unadonnaecco perché accanto alla miafrancamente e modestia a partemi trovoun poco di buono.» «So anch'io che esistono delle donne perfettamente degne diessere amatee perfettamente rispettabili; ma lo so per caso!» disse Falchi;.«Or benegiacché per caso avete sotto gli occhi tante eccezioni quantisiete voi altriincluso lo scettico Crespi che perde il suo scetticismo dietrola baronessaperché vorreste negare che La Ferlita possa essere felice anchecolla catena del matrimonio al collo?» «Chi dice di no? Dammi un altrosigaro.» «È quistione di gusti.» «Hai detto catena!» «Io domando di esserfelice più tardi che si può.» «Sìquando tua moglie non sarà bella cheper farti gelosoa torto o a ragionee quando i figli non ti verranno che perdarti le ansie e le paure di lasciarli orfani troppo giovani. È un egoismosbagliatocaro Falchie lo pagheresti troppo caro.» «InsommaDe Nataleanche tu sei un marito convinto e contento: contento tucontenti tutti. Non èverosignori?» «Eheh!» «Però bisogna domandarne anche a Giorgio inconfidenzae dandogli promessa che sua moglie non ne saprà nulla.» «Amicimieisono un egoista anch'io come Giorgio. Anzila nostra fecilità non cicosta nullaè facilesemplice e tranquilla. Quando vi sarete rotte le gambe acorrere dietro la vostra felicitàciascuno alla sua manierami dareteragione. Sai perché non mi dà soggezione la tua aria sardonicaFalchi mio?né me ne dà il modo in cui Bassano mi buffa il fumo sul viso? Perché so chein questo momento in cui mi state ad ascoltare col sigaro in bocca e colle maninelle taschesprofondandovi nelle poltrone e sorridendo sotto i baffitu pensia quel che ti costa la tua Giudittatu che la tua baronessa si fa corteggiareda un altroe tu che la tua relazione con quella signora che tu sai comincia adannoiartie che ha durato troppo.» «Tutte coteste sarano ottime ragioni perte che non ti sei mai rotte le gambeDe Natale mioma Giorgio se le ha altroche rottelo so io che l'ho trovato a Firenze in tale stato da sembrarmi piùadatto per San Bonifazio che pel ministero di Palazzo Vecchio!» «Di'Bassanohai conosciuto quella russa che gli ha fatto girare la testa come unmolinello?» «Noquella lì era invisibile; si diceva che fosse cosìmalandata da essere costretta a tenere anche Giorgio al regime omeopatico.»«Si diceva anche ch'era una bella donna! Chi dice di sì e chi dice di no... Mainfinesapeteuna donna che vi cura colla omeopatia?» «E Giorgio l'hapiantata?» «Noè stata lei che l'ha piantato. Il dannole beffee l'uscioadosso!» «Giorgio s'è dato pace però.» «Ed ella è andata a morire in unangolo di qualche albergocome tutte coteste gran signore tisiche che vengonodal Nord.» «A proposito di tisiche e di gran signorene ho conosciuta unaall'Albergo dei Bagni di Acirealee sarebbe una bizzarra combinazioneche fosse l'amante di La Ferlitatanto più che è proprio russa!» aggiunseBassano. «Bella?» «Tisicamio caroossa e pelledagli occhi grigi grandicosì.» «La conosco» disse il dottor Rendona«è sotto la mia cura.»«Come si chiama?» «Chi lo sa? Si fa passare per signora Contima pronunziaquesto nome come se fosse turco.» «Anche quella di La Ferlita nascondeva ilsuo vero nome sotto uno pseudonimo.» «Credo dev'esser stata infatti una belladonna; ha ancora dei begli occhi.» «E nessuna speranza?» «Quel che si dicenessuna; siamo al terzo gradoanzi alla fine del terzo grado; del polmonesinistro non le rimane quanto il pugno di un ragazzoil destro è andato deltutto. Quando faccio la mia auscultazione medica le bollicelle scoppiano come unfuoco d'artifizio. Tutta la mia scienza non potrà giovare che a vincere lamorte per due settimane o tre. Non capisco perché i medici di laggiù mandinoqui i loro malati quando sono a questo estremo. Figuratevi un viaggio cosìlungo fatto in quello stato! È vero che non ripartirà più.»

Giorgio era entrato da qualche momentoe ascoltava Rendona con le spalleappoggiate allo stipite dell'usciosenza dire una parola. Quando il dottoreebbe finita la sua narrazione fatta con l'indifferenza di un uomo abituato aparlare di queste cosema che nondimeno avea gettato un'ombra sulla gaiezza unpo' turbolenta della comitivasuccesse un istante di silenzio. La Ferlita sipassò a più riprese la mano sulla frontee cercò di ravvivare laconversazione egli stesso. Parecchi cominciarono a cavare gli orologi e adandarsene. Mentre il padrone di casa distribuiva strette di mano a dritta e asinistradisse al dottore: «Fermati ancoraRendonasembrami che Erminiaabbia un po' di febbre.» Crespich'era rimasto l'ultimouscì sogghignando.Mentre Giorgio mi stringeva la mano mi fermò un istanteguardandomi in visoquasi volesse dirmi qualche cosama non aprì boccapoi mi serrò la mano dueo tre volte con forzadicendomi: «A rivedercie prestonon è vero?»

Rendona mi raggiunse sulle scalepoiché solevamo fare la strada insieme.«Ha un po' di febbreè vero» mi disse «è ancora debolee tutta questagente e tutte quelle signore le hanno intronato la testa. Ma che diavolo ha suomarito? Mi ha fatto cento domande sulla mia ammalata di Acireale. Che il diavoloci abbia messo proprio la coda? Ad ogni modo non ce la metterà per moltotempo.»

IX

Le matrone intime della famiglia se n'erano andate lasciando le ultimeraccomandazioniil va e vieni dello strascico della suocera era cessatoilbambino dormiva nella sua culla azzurra e biancala convalescente cominciava adassopirsi anche lei. Giorgio s'era messo a sedere ai piedi del letto. Quellaquietequel silenzioquella luce temperata gli infondevano una gran serenitànell'anima; sembravagli sentirsi penetrare da una pace solenne; quelle paretiquei mobili noti aveano una fisionomia onesta e sorridentee nel tempo istessoavevano qualcosa di nuovoché quella camera tranquilla sembrava più pienaquella piccola culla azzurrarannicchiata in un suo cantoriempiva un granvuoto fra il canapè ed il letto. Nella strada si sentivano ancora i rumori diuna città che si addormenta; il trotto rapido delle carrozze che ritornavanoalla rimessail chiudersi delle ultime finestre e delle ultime porteil passoaffrettato di coloro che ritornavano dal caffè o dal teatroi discorsispezzatie in mezzo a tutti cotesti rumori il respiro della donna un po'irregolare sembrava unirsi al respiro appena sensibile del piccolo essere che ledormiva vicino. Gli occhi di Giorgio andavano dal letto alla cullaviriposavano volentierie da quelle deboli creature che dormivanotranquillamentefiduciose sotto gli occhi di lui che stava come a vegliarle eproteggerlevenivagli una gran forzauna gran pienezza di vitache gli facevasempre più soffice il tappeto sul quale posava i piedi e lo schienale dellapoltrona al quale appoggiava la testagli rendeva più dolce il tepore diquella camerapiù blanda la luce della lanterna. Non aveva sonnoquella calmalo riposava dalle tante noie e dalle tante chiacchiere della giornata. Senzasapere di esser felicegodeva istintivamente di paragonare il suo statopresente a quello di coloro fra i suoi amici che sapeva più combattuti dalleangustie e dalle tempeste della vita; passava in rassegna macchinalmenteinquella specie di sonnolenzai paradossi dei loro discorsile contraddizionidelle loro azionie d'uno in un altro sfilarono anche le agitazioni del suospirirole gioie turbolente e turbatele febbrili aspirazioni del suo passatodi quel passato di ieri che sembrava già tanto lontanoe che gli infondeva unaspecie di inquietezza penosae si legava sino alle ultime parole dei suoi amicie all'ultimo racconto del suo medico. A poco a poco s'immerse in una meditazioneprofonda. Erminia dormivarivolta verso di luibianca e serenacolle treccenere sul bianco guanciale; di quando in quando sembravagliper una stranaallucinazioneche quel viso fattosi più cereo si profilassesi incadeverisseche dei profili secchirigidivi si disegnassero vagamentedei profili cheegli conoscevaconsunti dalle febbri e dalle passionie che gli si eranodisegnati implacabilmente dinanzi agli occhimentre Rendona parlava della suaammalata all'Albergo dei Bagni. Quei capelli neri su quell'altro visoaveano qualcosa di affascinantedi repugnantedi spaventoso. Egli s'alzò perandare a baciare in fronte la sua Erminia e per curvarsi sulla culla del figlio.La creaturina stava raggomitolata in mezzo ad un pugno di batista e di trineavea i labbruzzi semiaperti e i pugni chiusi sul petto; la madre dormiva serenae sorridente come se lo vedesse ancora. Egli volse intorno uno sguardo chesembrava distrattolo riposò sulle pareti e sui mobili; poi si mise a baciarecon una certa vivacità il bambinoche si svegliò strillando.

PARTE TERZA

X


Erano passate due settimane; la primavera era alquanto inoltratae la signoraErminiacui rifioriva nuovamente la salute sulle guancecominciava a riceveree ad uscire in carrozza nelle ore più calde del giorno; ella era felicissimasi baloccava da mane a sera col suo bimboanzi erano in due a baloccarsisebbene Giorgio credesse farlo per compiacenza e ci mettesse una goffa serietàed Erminia pretendeva che già il bambino conoscesse il babbo alla voce ed alriso. La mamma Ruscaglia era sempre per casacontenta come una pasqua del belmaschietto che veniva in linea più o meno retta da leie un mattino entrò conun viso misterioso a dire alla figliuola: «Indovina chi è arrivato? tuo cuginoCarloin permesso per due mesi. Se vedessi che bel giovanottoe come gli vabene la montura. È stato a Lissapovero ragazzoè stato di quelli del Red'Italiae fu pescato dopo quattordici ore ch'era in mare! Insommacose dafar drizzare i capelli sul capo! Sentirai quando ti racconterà; ora viene dalleIndiedall'Americache so io; insomma ha girato il mondoe con tutto ciò nonm'ha fatto suggezione; m'è parso di vederlo tal quale è partito pel collegioe l'ho baciato proprio come un ragazzo. M'ha domandato di tee m'ha detto cheverrà oggi stesso.»

La Ferlita era uscitoe la signora Erminia era solacucendo dei nastrini sudi una cuffietta del suo bambino. Ascoltava la mamma con tanto d'occhi apertiesenza sapere ella stessa il perché non poté dire una sola parolasi fecebiancae posò le mani e la cuffietta sulle ginocchia. La signora Ruscagliachiacchierava sempre; Erminia pensava vagamente che infine era naturale cheCarlo tornasse tosto o tardiche ella l'aveva sempre prevedutoe che solo ilsentirsi annunziare così all'improvviso il suo arrivo le cagionava quellasorpresa. Sua madre dopo aver ciarlato ancora una mezz'ora se ne andò. Erminiarimase un po' turbata dalla visita che aspettava; avrebbe desiderato quasi chenon avvenisseo che almeno ritardase di qualche giorno; sofffriva inanticipazione l'imbarazzo del primo trovarsi insieme col cuginoe delle primeparole; non sapeva se avrebbe dovuto dargli ancora del tu; avrebbe e non avrebbevoluto che suo marito si fosse trovato presente a quell'incontro. Finalmente siudì la famosa scampanellata ed il famoso passo. Carlo era un bel giovinottoassai brunoanche per un sicilianoma di fisionomia simpatica ed aperta; ei les'avvicinò così rapidamentele prese le due mani e le scosse a più ripresecon tanta cordialitàcon tanta franchezzache l'imbarazzo della cugina nonebbe tempo di manifestarsie svanì istantaneamente. Carlo sedette accanto alei su di una sedia bassaabbordò da buon marino la spinosa difficoltà deltue si misero a discorrere come se la loro conversazione fosse statainterrotta soltanto dal giorno innanzi. Ella respirava liberamente e glisorrideva quasi per ringraziarlo del gran peso che le toglieva dal petto.«Sai» le diceva il cugino; «mi facevi un po' soggezione prima di rivederti;adesso sei una matronahai dei figli! È bello il tuo bambino? Se non fossestata la zia avrei rimandata la mia visita a domanicome un poltrone che pigliatempo. Appena t'ho vista m'è sembrato che ti avessi lasciata ieriin quellapiccola anticamera giallati rammenti? e ti ho dato subito del tu come alloraperché ti ho trovata sempre la stessa... cioè noadesso ti sei fatta piùbella. E il tuo bambinome lo fai vedere?»

«Sìanzidesinerai con noi; ti presenterò a mio marito.»

«Lasciamolo là il maritoè sempre una bestia antipatica. Ti pare chepotrei darti del tu se egli fosse presente? e che saresti per me la stessacugina d'allora? Quel signore che non mi conosce mi farebbe gli occhiacciefrancamente io lo troverei brutto perché mi ha rubato la mia Erminia; ché noidovevamo essere marito e moglienon è vero? Già dico così per ridere;eravamo proprio ragazzi! E abbiamo fatto benissimo a fare quello che abbiamofatto tutt'e due; è passato tanto tempo! Tu eri una ricca signorinaed io nonavevo in prospettiva che i galloni di tenentemagri gallonicugina mia! enella mia carriera bisogna scacciare come il diavolo la tentazione delmatrimonio. Se sapessi che bella e avventurosa vitacara Erminia! e su quantiluoghi del mondo tuo cugino si è rammentato di te! Ti racconterò poi tuttoquel che ho vistoqualche giorno... ne ho visto delle belle e delle brutte; masaiquando si hanno i primi galloni alle maniche anche le cose brutte sembranobelle. Li racconterò a te e a tuo maritogiacché infine mi presenterai a tuomarito; sarebbe strano che non mi presentassi a tuo marito. E tu come stai? seicontenta? sei felice? Adessovedinon posso adattarmi a chiamarti conquell'altro nome... madama La Ferlita... No!»

«Ora ti farò vedere il mio Giannino»disse Erminia suonando ilcampanello.

«C'è tempoperché starò qui due mesie verrò a trovarti tutti igiorni. Me lo permetti?»

«Anzi!» La balia entrava col bambino. «Che te ne sembra? Non è bello comeun amore?» Domandò Erminia appena la nutrice fu uscita.

«Somiglia a suo padre.»

«Ma se non lo conosci!»

«Allora non somiglia né a te né a lui.»

«Il poverino non sta bene da due giorni! è un po' pallidonon ti sembra?»

«Come vuoi che sia bello o no a quell'età? Tuo marito è un bell'uomo?»

«Lo vedrai.»

«Gli vuoi bene? Giàguarda che sciocco! come si fanno queste domande? Ègeloso?»

«Niente affatto.»

«Manco male. Ma sai che col tuo bamboccio in grembo mi fai un effettosingolare!»

«Signor tenentelei è pregato di non chiamare bamboccio il mio Giannino.»

«Scusami! Cosa vuoi? non so abituarmi all'idea di vederti mamma e LaFerlita. Se tu avessi avuto quindici o venti anni di menoo se io fossi statocontrammiraglio!... Ti rammenti di quel tavolinetto presso il quale tu soleviricamare? Infine quel che è stato è statoe non gliene voglio a cotestosignor La Ferlitaa patto che ti renda felice. Non ti dirò che quando la ziami ha scritto del tuo matrimonionon m'abbia sentito qualcosa qui. Giàsaicome siamo noialtri giovanotti della marina! un po' del collegio c'è sempre abordoe i lunghi quarti passati a guardare le stelle danno delle grandimalinconie. Non ti dico che tutti gli ufficiali si somiglino... quelli dicavalleria per esempio! altro che fanciulli! Se tu li avessi sentiti al Caffèd'Europa o alla Concordia! Se io fossi in cavalleria forse l'avreipresa per un altro versoe adesso invece di avermela con tuo marito cerchereidi farti la corte.»

«Carlo!...»

«O perché diventi rossa? Vedi che non te la faccio la cortee chepreferisco essere il tuo buon cugino di una voltameno i castelli in aria. Epoistarò qui così poco che non abbiamo il tempo d'andare in collera.» -Erminia gli stese la mano con un sorrisomormorando fra le labbra «Matto!» mail rossore tardò alquanto a dileguarsi dalle sue guance.

In questo momento entrò un signore biondosenza farsi annunziare. «Miocugino Carlo»disse Erminia. «Mio marito.»

Giorgio accolse il cugino a braccia aperte e lo invitò a desinare. Carlo siscusò col pretesto di un pranzo di amici. Parlarono di viaggi e di cosediversee quindi La Ferlita li lasciò soli.

«Tuo marito non mi piace»disse il cugino accomiatandosi.

«Cosa gli trovi?»

«Nullaè un bellissimo giovinema non mi piace.»

«Insomma a te non piace né mio marito né il mio Giannino. Cosa ti piacedunque?»

«Ma chi ti ha detto che non mi piaccia il tuo Giannino? e anche tuomarito... Anzise non fosse tuo marito mi sarebbe simpatico. Vuoi che te lodica? mentre egli era qui sembrava che tu fossi a cento miglia... Non ti seiaccorta che bordeggiavam sempre per non approdare al tu... Mi seccaecco!»

Rimasta solaErminia stette alquanto pensierosacol bimbo sulle ginocchia.Da lì a poco Giannino si mise a sgambettare e ad agitare le piccole braccia.Ella si scosse come se il suo pensieropartito dall'anticameretta gialla che ilcugino aveale rammentatoritornasse ad un tratto da un lungo viaggio fattonelle lontane regioni di cui Carlo avea parlato con suo maritoe tutta rossa inviso si chinò sul suo bambinoa ridere ed a giuocare con lui.

Il cugino venne tutti i giorni come avea promesso; ma ora la sua venuta nonproduceva più sull'Erminia l'imbarazzo della prima voltae non le lasciavaquell'inesplicabile turbamento che le avea lasciato la prima visita. Adesso sidavano del tu anche in presenza di Giorgio. Avevano rivisto insiemequell'anticameretta giallache non sembrava più quella neppur essadopo tantotempo; Carlo aveva finito per trovare bellino il bamboccio di primae venivasempre con le tasche piene di confetti e di giocattoli che avrebbero potutoservire al più presto fra due o tre anni. La zia Ruscaglia era sempre in girocol suo nipote ufficialedi cui era superbae raccontava a tutti la storiadelle quattordici ore passate in maree dei viaggi che non finivano più.Quindi per un motivo o per l'altroi due cugini si vedevano tutti i giorni - neavevano così poco da stare insieme! Però con tacito accordo non avevano piùtornati sui «ti rammenti»dopo che una volta Erminiaseria seria e chinandogli occhiavea risposto a lui che le parlava d'un certo volume del Prati: «Nonmi rammento più. Adesso ho da pensare a mio figlioe non leggo che di rado.»

Carlo era proprio un buon ragazzoe avea tutte le giovanili delicatezzedell'alunno di collegio di marinacome avea detto. Ei le strinse la manounpo' rosso in visoe da quel giorno non le disse altro. Ma la cuginache infondo gli volea sempre benegliene fu grata dall'intimo del cuoree glielodimostrò tornando ad essere con lui affettuosa e gentile.

Però quello che proprio non andava giù a Carlo era il cugino. «Cosadiavolo ha tuo marito?» domandava ad Erminia. «Sembra che abbia perso labussola!»

XI

Ecco cosa avea il marito:

Rendona m'avea detto: «Che va a fare La Ferlita ad Acireale? L'ho incontratodue volte alla stazione.»

«Sarà andato a Giarre; uno dei poderi di sua moglie è in quellevicinanze.»

Giorgiodopo quella stretta di mano singolarmente espressivache mi aveadato la sera in cui il dottore avea raccontato la storia della sua ammalatadell'Albergo dei Bagninon mi avea detto più nullaanzi avea evitatole più lontane allusioni a quella circostanza; nei rarissimi momenti in cui losorprendevo sovrappensieri si affrettava a intavolare un discorso qualsiasiquasi avesse letto una indiscreta interrogazione ne' miei occhi. Del restomenoquelle passeggere preoccupazioninon si curava d'altro che della moglie e delfiglioil quale avea una salute cagionevolee sembrava che tutto il suo mondostesse in quelle due creature.

«La mia ammalata deve essere matta da legare»mi disse un giorno Rendonaalla stazione di Acirealedove andavo pei bagni. «Ha saputo che al Comunale visarà una rappresentazione straordinaria e vuole assistervi. Figuratiin quellostato! Io me ne son lavate le mani. È affare che riguarda il capo-stazioneec'è caso che nella mezz'ora di viaggio abbia a finire in vagone.»

La sera di quella rappresentazione anch'io ero a Cataniae vedendo in teatroLa Ferlita colla moglie ero andato nel loro palchetto. Avevo sempre prestatoun'attenzione assai mediocre alla storia della russa ch'era inferma all'Albergodei Bagnipoiché alloggiando nello stesso albergo non l'avevo mai vistané avevo udito parlare di leie avevo dimenticato persino quel che ne avevadetto Rendonaallorché un improvviso movimento e il subitaneo pallore di cuisi coperse La Ferlita mentre stava discorrendome ne fecero risovvenire dibotto.

Il teatro era mezzo vuotoe si vedevano pochissimi visi nuovi; ma verso lametà dello spettacolo si era aperto l'uscio di un palchetto in terza filadifronte a quello dove eravamoe vi si era visto un po' di movimento in fondo;però nessuno era venuto a mettersi sul davanti; e il palchetto sembrava vuotocome prima. Nondimeno gli sguardi di Giorgio vi correvano sempreanzi vi sisprofondavano con tale ansietà paurosache seguendoli vidi anch'io che c'eraqualcheduno. Scorgevasi in fondo e nell'ombra qualcosa di biancodelle formeindistinte che stavano immobili. Io ci rivolsi il cannocchiale un istanteevidi chiaramente un pallido viso di donnacosì scarno che il profilo sembravascolpito nettamente dall'ombrae che gli occhi sembravano nerissimienormiluccicanti come fossero fosforescenti. Quegli occhi ardenti stavano rivoltiverso di noi con una tenacità singolare. Giorgio era in preda ad una sordaagitazione; parlava con vivacità delle cose più disparatee due o tre volteavea preso il suo cappello e l'avea posato con dei movimenti nervosi. Ad untratto la figura che stava nell'ombra si alzòe venne a sedere un momento suldavanti; era tutta vestita di trine e di raso biancosenza un gioiellocoifolti capelli biondi annodati mollemente un po' bassi sulla nuca; avea deiguanti lunghi sino quasi al gomitoe attraverso la trasparenza del merletto sivedevano gli omeri scarniil petto incavatole braccia su cui i guantis'increspavano; sotto la polvere di riso si indovinava il pallore cadaverico; manondimeno quel viso consuntoquelle labbra smortequell'occhio arso dallafebbre avevano un fascino irresistibile. Ella alzò il suo binoculo e lo puntòsu di noi. Tre o quattro cannocchiali si erano rivolti verso quella stranafigura che sembrava sorgere improvvisamente dall'ombra. La signora La Ferlitadiscorreva sempre gaiamentee ad un trattoad un movimento del maritoalzògli occhi anche lei. Giorgio senza finire quel che stava dicendo balbettò cheandava a far delle visite ed uscì. L'incognita si ritrasse nel fondo del suopalchettoné più si vide. Di tanto in tanto si udiva lassùin terza filauno scoppio di tosse soffocata.

La signora Erminia non mi avea domandato chi fosse quella sconosciuta laquale per un istante avea attirato la curiosità di una metà degli spettatoriné io avrei saputo dirglielo; ma era tornata a casa taciturnae sembrava menoallegra di prima. Mi disse per altro essere in pensiero pel suo Giannino che daqualche giorno stava maluccio. Giorgio stette un'ora presso la culla atempestare Rendona di domandedi dubbi e di timori esageratie passò ilrimanente della sera colla mogliepiù affettuoso che mai e quasi riconoscente.Malgrado di tutto ciò si tradiva in lui un certo sforzocome se volessevincere una inesplicabile irrequietezza; sembrava in certi momenti che temessequalche cosa.

Io ero ritornato ai miei bagni. Una volta mi era sembrato d'incontrare nelpiccolo giardino dell'albergo quella stessa donna che mi avea fatto sì stranaimpressione al teatro; era la medesima figura estenuata e tristein cui lafierezza e un certo che di vivo e di ardentesembravano ribellarsi ancora;andava lentastancaappoggiandosi al braccio di qualcuno - un signore alto ebiondo - e mi fissò in volto quei medesimi occhioni divoranti e accerchiati diun solco bruno.

Il giorno stesso vennero a dirmi che la signora che occupava il grandeappartamento del primo piano desiderava parlarmi. Non conoscevo la signora delprimo pianonon mi aspettavo quell'ambasciata fatta in modo singolarema nonfui incerto un istante sul chi ella fossee di chi avesse a parlarmi. Scendendoal primo piano sentivo un presentimento doloroso che mi stringeva il cuore.

Allorché entrai stava presso la finestra; quantunque fosse la metà dimaggioavea fatto accendere un gran fuoco. Il sole era tramontato e nellastanza regnava la luce incerta di quell'orasebbene anche le due lanternefossero accese. Dalla finestra si vedevano alcuni fiocchetti di nuvole radeancora leggermente illuminate sul cielo più scuroche andavansi sfilacciandoqua e là. Il viso della donna rimaneva al buiosprofondata com'era in una gransedia a bracciuoli. Era vestita di nero; avea una treccia biondaallentata equasi discioltache serpeggiava sulla spalliera e le mani dimagrate e bianchescintillavano di gemme. I suoi occhioni grigiprofondamente infossatisembravano ardere e consumarsile labbra pallide e chiuse avevano una piegadolorosa. La morte avea lambito colla sua ruvida lingua quel viso trafelatocosì bianco come se non vi scorresse più una sola goccia di sanguee vi avealasciato delle sfumature livide. Non la dimenticherò mai più.

Ella inchinò il capo con un triste sorrisoe mi fé cenno colla mano dimettermi a sedere.

Tacevacome dovesse superare uno sforzoo ricordarsi di quel che volevadirmi; c'era ancora qualcosa che non era vinta e che si ribellava in lei; lafronte altera di quella tigre ferita a morte avea un'aria di maestà.

«Ella sarà sorpresa del mio invito» mi disse lentamente«ma io laconosco da un pezzoe non ho tempo di aspettare una presentazione. Ella èamico del signor La Ferlita... l'ho visto spesso con lui a Firenzeallorchéegli ebbe un duello... si rammenta?... ed anche qui vicinoa Catania... li hovisti insieme.»

Chiuse gli occhi un momentoo almeno mi parveché così com'era situata ilsuo viso non si distingueva chiaramente. Dopo due o tre secondi di silenzioriprese con un accento che mi parve più profondo.

«Adesso anche lei sa chi sono io... Giorgio le avrà parlato di me.» Costeiabbordava il punto spinoso della nostra conversazione con tale altera edisinvolta franchezza che di noi due io ero al certo più imbarazzato di lei. Miporse la mano seccaaridaarsa. «Ora spero che mi perdonerà il disturbo chele ho dato»aggiunse con una voce che mi penetrò sino all'anima; sentivoconfusamente quel che avrebbe dovuto esserci nel cuore di Giorgio se egli sifosse trovato al mio posto. Ella dopo un altro silenzioforse dopo aversuperato un'ultima esitazione:

«Il signor La Ferlita è ammogliato?» mi domandò.

«Si.»

«È felice?»

«Lo credo.»

Ammutolì e reclinò la fronte sulla mano. Che cosa sarà stato inquell'anima? Quando rialzò il capo il suo profilo sembrava essersipietrificato; il naso e la fronte spiccavano nell'ombra con linee secche edangolosema era perfettamente rassegnata o impassibile.

«Graziesignore»mi disse. «Un'ultima preghiera... non gli dica nulla diquesta mia fantasia da infermanon gli dica nemmeno di avermi vista.»

Mi accomiatò con un'ultima stretta di manoe rimase immobile e calma.Soltanto allorché fui sull'usciovoltandomi verso di leila vidi che siteneva il fazzoletto sul viso.

XII

La Ferlita in quel tempo aveasenza dubbio«il diavolo» che gli aveascoperto il cugino Carlo. Fosse la salute malsana del suo bambinofosse altromotivoera evidente che faceva grandi sforzi per dissimulare una insolitaagitazionecolmava di carezze il bimboed era pieno di attenzioni e di premureper la moglie; ma in modo singolarecon una certa inquietudinecome se volessefarsi perdonare qualche tortocome avesse qualcosa che lo pungesseo come setemesse di perdere madre e figlio. Ne' suoi mille progetti d'andare a passarel'estate in campagnadi cominciare grandi lavori nelle sue terredi andare aibagni di Alìc'era dell'irrequietezza. Gli rincresceva moltissimo che lo statodel bimbo non gli permettesse di mettere in esecuzione su due piedi l'idea fissache faceva capolino sotto tutte le formequella di lasciare la città.

Un giorno ch'ero andato a fargli visitami domandò: «Tu che sei all'Albergodei Bagni... ci sono molti forestieri?»

«Pochiper la stagione che corre.»

Egli mi fissòe non aggiunse altro. Un'altra volta domandò a Rendona: «Ela tua ammalata? come sta?»

«Come quelli che se ne vanno.»

«Dev'essere assai triste morire così sola in paese lontano!» aggiunse dopoalcuni istanti di silenzio.

«È giunto suo marito.»

«Poveretta! chissà dove correrà il suo pensiero! chissà quanto avràsofferto per arrivare a tal punto! chissà quale passione l'avrà uccisa!»

«Oh la passione! di passione non si muoremio caroquando non èaccompagnata dalla tubercolosi o dal tifo.»

«Tu parli da medico!» rispose Giorgio con un certo sorriso.

«Non sono medico soltantoe ho avuto anch'io i miei amoretti grandi epiccini. Ho piantoin quel beato tempo che avevo più arrendevole la glandulalacrimalee mi sono strappato i capelliquando ne avevo molti; ma vedinonsono mortoe sto benissimo.»

«Si vede! Anzi hai messo pancia. Però ti calunnii alquantomio poverodottore; avrai avuto degli amorettiti sarai strappato i capelliconosci letrentanove maniere in cui un galantuomo se ne può andare all'altro mondomaignori completamente quel che sia una passione... e meglio per te! Potrestivincere la mortetu che hai tanto studiato? sai che ci sia un rimedio contro latisi? Quando si è colpiti di quel maleche si chiama una passionevedi... èuna disgraziaè una fatalità... ma è inutile lottaree bisogna subirla finoall'ultimo.»

«Se fosse cosìsarebbe meglio mandare pel prete alla prima febbre - e inbuona coscienza io credo di fare il mio dovere lottando colla malattia della miarussaquantunque non abbia la menoma speranza.»

«Bravodottore!» disse facendosi un po' rossa la signora Erminiala qualesino allora non avea ardito prender parte alla conversazione. «Mi pare che siaproprio così! Molti mali ci vengono addosso appunto per la paura che neabbiamoe ci vincono più facilmente allorché ci lasciamo sopraffare senzacombatterli... certe cose bisogna guardarle coraggiosamente in faccia per vederequali sono... e alla fine forse non ci è nulla di irresistibilené difatale.»

La Ferlita ascoltava la moglie sorridendo con una specie di teneracompiacenzadi rispetto e d'indulgente compatimento. «Mia cara Erminia» ledisse poscia accarezzandola con la voce«come vuoi parlare tu di cotesti malie del modo di vincerli!... Tu sei una bambinatu! la sorella maggiore delnostro Giannino!...»

Uno o due giorni dopo La Ferlita ricevette una lettera col bollo di Acireale.Prima di aprirla le mani gli tremavano; poi entrò nella camera dove erano lamoglie e il bambino infermo per dire che un affare urgente lo chiamava la serastessa a Giarre. Io mi trovava presenteinsieme a Rendonae mi parve scorgerein Giorgio una singolare agitazione. Anche la moglie se n'era accorta di sicuropoiché lo fissava con un'aria mal dissimulata di sorpresamentre mettevainnanzi mille pretesti per fargli differire quella gita. Il bambino infattisebbene non destasse serie inquietudiniavea peggiorato. «Andrai domani» glidiceva Erminia«infine a Giarre non può essere avvenuto nulla di cosìurgente. Domani il nostro Giannino starà meglioe tu partirai piùtranquillo.»

«Come hai trovato mio figlio?» domandò Giorgio a Rendonasempre con quelturbamento inesplicabile nella vocein tutta la persona.

«Come stamane. La sera poi di solito la febbre si fa più gagliarda.»

«Bisogna assolutamente che io vada a Giarre stasera... se credi che lo statodel mio Giannino non me lo permettadimmelo...»

«No... non ho detto questo...»

«Allora a rivederciErminia; sarò di ritorno col primo treno di domani.Vedi che il nostro Rendona è tranquillo?»

La moglie non risposelo accompagnò sino all'uscioe ritornò a mettersiaccanto alla cullatenendo gli occhi fissi sul bimbo. Uscendo con meRendonami disse:

«Che maniera singolare di farmi siffatte domande in presenza della moglie!Un po' inquieto lo sonoè vero; ma avrebbe fatto meglio ad indovinarloanziché costringermi a spaventare quella povera donna.»

Siccome ritornavo ad Acirealeincontrai La Ferlita alla stazione al momentodi partire. Era solosenza bagaglioe parve sorpreso vedendomicome se nonsapesse che quasi tutti i giorni facevo quel va e vieni; egli prese un bigliettoper Giarre; c'era uno scompartimento vuoto e l'occupammo noi due. Giorgioparlava pocoe stette col capo allo sportello dalla parte del mare per quasitutto il tempo del brevissimo viaggio. Alla stazione di Aci-Castello credevafossimo diggià arrivatie quando il treno si rimise di nuovo in movimentoappoggiò i gomiti alle ginocchia e il capo fra le mani. Prima ancora digiungere ad Acirealementre il convoglio fischiava e andava balzellonirallentando la corsaegli era alzato e s'era messo ritto dinanzi allo sportelloche guardava dal lato opposto all'albergo dei Bagniappoggiandosi allamanopola. Non si mossepiùe tutto il tempo che il treno stette fermonondisse una parola. Gli domandai prima di lasciarlo se avremmo fatto il ritornoinsieme col treno dell'indomani; ma rispose che non lo sapeva di sicuroe cheforse sarebbe tornato a Catania in carrozza. Lo sportello si chiusee mentre ilconvoglio ripartivanon si affacciò nemmeno per vedere la gente che uscivadalla stazione.

All'albergo si passava la sera leggicchiandopestando sul pianoo fumando epasseggiando in giardino. Verso le undici si udì arrivare una carrozza dallaparte di Giarre; io stavo per salire in camera mia quando m'imbattei faccia afaccia con La Ferlita.

Giorgio si arrestò bruscamentepoi mi venne incontro risolutamente e mistrine la mano con forza. «Infine» mormorò«dovea essere così! Andiamo insalain giardinoin camera tuadove vuoi. Avrai tutto compreso...»

Io avevo compreso perfettamente e lo condussi in giardino; la sera era mitema importuni non ce n'erano a quell'ora. Mentre cercavamo un bancoal buioegli mi disse con voce sorda:

«Soprattutto... non mi far della morale; sai che è inutile.»

«Io non te ne ho mai fattacaro Giorgio; da dove diavolo ti è venutaquesta idea...»

«M'è venuta... che avrei dovuto evitartie incontrandoti mi son vergognatodi me.»

Alcune finestre dell'albergo disegnavano qua e là sulla facciata bruna deiquadranti luminosi. Giorgioritto dinanzi a mesembrava interrogarle tuttecollo sguardo.

«Dov'è?» mi domandò alfinecome se avessimo già parlato di qualcheduno.«Faccio malelo so! Hai visto come mi guardava quella povera Erminia? Sembravache mi leggesse in cuore. E il mio Giannino?... chissà come starà aquest'ora?... Hanno un bel dire... In questo momento se alcuno mi bruciasse lecervella mi farebbe un gran bene... Ma sento che è più forte di me... quellapoveretta si muore... sai... L'ho sempre dinanzi agli occhie se oggi fossistato costretto a non poter venire qui mi pare che la testa mi sarebbescoppiata!...»

Egli andava su e giù pel viale; strappava le foglie degli arbusti chemasticava con una specie di rabbia. Ad un tratto lo vidi che si celava il visofra le manie scoppiò in singhiozzi senza poter proferire una sola parola.

Quell'uomo che si accasciava sotto il dolore faceva pietà; Giorgiodisolito così fatuocosì spensieratosi contorceva per nascondermi le suelagrime e la sua debolezza. Tentai prendergli una mano; egli mi respinsedolcemente e continuò a a piangere.

«Se tu sapessi quanto costino certe gioie fatali!» mi disse alfine con unaccento che penetrava l'anima «e quanto si soffra a esser così miserabile!»

«Giorgio!»

«Lo so che sono un miserabile! Ho ingannato quella povera Erminiaholasciato mio figlio quando sarebbe stato mio dovere di assisterloho lasciatola mia casala mia felicità... il cuore mi si spezzava a lasciarli... e sonpartito!»

«Perché sei partito dunque?»

«Perché» e mi piantò in viso uno sguardo da insensato «perchébisognava... perché ella mi ha scritto.»

«E la tua visita a che le gioverà?»

«Non lo so! a nulla! Bisognava andare.»

«Hai provato a pensare il contrarioad affermarti nell'idea che non avrestidovuto andare... né per tené per lei?»

Egli rispondeva come fosse fuori di sé.

«Provare? a che provare? Se è più forte di meti dico!... Sile conoscotutte le vostre ragionile vostre convenzionii vostri doveri!... lo sosonouno sciagurato!... ed eccomi qui come un dannato!»

Rimase così qualche tempocol viso fra le maniposcia si scosseudendosuonare la mezzanottee con accento risoluto:

«Addio!» mi disse. «Bisogna che vada. Lasciami andare.»

XIII

I lumi erano spenti quasi tutti nel corridoio che metteva alle stanze diNata; l'uscio era socchiuso; Giorgio aprì esitando e vide la camera debolmenteilluminata. Ella era ritta accanto al seggiolonevestita di biancoimmobilerivolta verso l'uscio. Gli andò rapidamente incontrostrisciando sul tappetocome un fantasmapiù bianca della veste che indossavacolle braccia tese egli occhi ardentie l'avvinse in un abbraccio da lupa.

Non diceva nulla. Lo teneva sempre cosìsul suo petto. Di tratto in trattogli afferrava il capolo scostava per fissargli uno sguardo felino negli occhisenza dire una parolae tornava a stringerselo al seno con impeto.

Per caso si udì un lieve rumore dietro l'uscio: ella si volse come unafiera:

«Chiudi!» fu la sola parola che gli dissecon voce che lo fece trasalire.

«Chi può essere di là»

«Mio marito. Ma non ci abbadare. Tu avrai il tuo revolver... se la fatalitàlo spinge sin quilo uccido.»

E senza curarsi dell'impressione che quelle parole potevano fare su di luisi rimise a fissarlo con occhi insaziati.

«Ti aspettavo!» gli disse poscia sordamente.

Ei la baciava: le labbra di lei rimanevano immobili.

«Hai preso moglie?» domandò alfine.

Ma non gli diede tempo di rispondere: gli si avventò al collo con un che diselvaggio:

«Qui! Dammi la tua fronte!... e le tue labbra! Qui...»

Ad un tratto si irrigidìe gli si abbandonò nelle braccia; Giorgio latrascinava verso la poltrona.

«Non è nulla!» balbettava ella col capo arrovesciato all'indietro «nonaver paura. Dammi quella boccetta... lì...»

Come l'ebbe sturatasi sentì al forte odore che dovea essere un cordialeefficacissimo. Nata comprese la titubanza di luigli sorrise tristamenteetogliendogliela di mano ripetè con impazienza:

«Non aver pauranon potrà farmi un gran male; e adesso ne ho bisogno!»

Appena ebbe bevute due o tre goccie che avea versato in un cucchiainolegote le arsero di una fiamma improvvisae si mise a ridere in modo chestringeva il cuore. «Come fa bene! mi sembra che mi abbia messo del fuoco...qui.»

Giorgio stava a guardarla con occhi aridisenza poter trovare una parola néuna lagrima; si sentiva soffocare da un cumulo di sentimentid'affetti ed'angoscie diverse. Ellacon triste civetteria da inferma s'era abbigliata concura; aveva annodato i suoi capelli in due grosse trecceavea delle trinepreziose sul petto roso dalla tisi. - Egli la vedeva sempre in fondo a quelpalchetto della Pergolae nei viali del giardinetto in via Principe Amedeoleggiadra e sarcastica.

«A che pensi? Non voglio che pensi a tua moglie»gli disse ella concollera.

Giorgio sprofondò il capo nelle spalle.

«L'ami cotesta donna? Nonon mi rispondere»aggiunse vivamentemettendogli una mano sulla bocca. «L'ho vista al teatro... è bella!»

Chiuse gli occhi e due lagrime scesero per le sue guance lentamentecadendoa piccole scosse. Successe un lugubre silenzio in quel colloquio d'amanti. A untratto Nata spalancando gli occhi e fissandoli sbarrati in quelli di lui:

«Perché mi guardi così? Son diventata brutta? Ho ancora i capelli moltobelliguarda! snodali... Non aver paura di menon morrò ancora! E poit'amotanto!»

In così dire brancicando gli si avviticchiava al colloe gli appoggiava latesta in seno con una specie di voluttà disperata.

Tutt'a un tratto gli mise le mani sul pettoscostandolo con una forza cheGiorgio non avrebbe supposto in leie con gli occhi ardenti e fisi su di lui.

«Dimmi che non ami questa donna! dimmi che non l'ami!»

Giorgio chinò gli occhi.

«Dimmi che non l'hai amatache ami me sola. Dimmelo!»

Ei mentìsenza saper di mentiree senza vergogna di mentire. Allora ellaseguitò a fisarlo in quel modoe dopo alcuni secondi di quel silenziocon unaccento intraducibile:

«Hai un figlio di costei?»

Giorgio taceva umiliato; ma Nata all'improvviso attirò bruscamente il capodi lui sul suo grembovi appoggiò il suo e cominciò a piangere.

«Non piangere!» esclamò Giorgio che si sentiva spezzare il cuore.

«Non piangerò più... nonon piangerò più...» le lagrime le siasciugarono nell'occhio febbrile e corrucciato. «Ho il diritto ad essere feliceanch'io... Che m'importa di costei!... dille che ti ho amato prima di lei...dille che morrò presto... dille... Non ho avuto la forza di morire senzavederti... Quando ti scrivevo così... non credevo che dovessi morire cosìpresto... non sapevo cosa fosse sentire la vita che fugge... non mi sentivo ilcuore così pieno... Se sapessi com'è triste il morire! e morir solain unalbergo! Mio marito è venuto adessoall'ultimo momento... gli ha scritto imedico... così è sicuro di non mancare al suo dovere laggiù... per più di unmese... e ha messo in salvo il dovere e la convenienza... Cosa vuoi che me nefaccia di quest'uomo? cos'è per me? Ti ho fatto ribrezzo quando ho detto che sein questo momento fosse venuto a mettersi fra di noi sarebbe stata unafatalità!... Cos'è tutto il mondo adesso che sto per lasciarlo?... Cosa ho datemere dippiù? Cosa devo aspettarmi? Non ho che tee ti voglio! intendi? adispetto di tua mogliea dispetto di tuo figlioa dispetto di tutti!...»

Parlava con voce sorda e bruscarisolutamentee con un che di fosco e difatale. Egli avea i capelli irtimolli di sudorel'abbracciava con unafrenesia spaventosaquasi fosse in preda a un delirio; sembravagli che quelleossa che si avviticchiavano a lui scricchiolassero; l'ebbrezza del suo amore eramostruosaquasi la dividesse con un cadavere; l'immagine di sua mogliedi suofiglio infermodella sua dimora tranquilladella sua felicità domesticamischiavasi a quel fantasma della donna che avea tanto amato in un orribile edoloroso incubo. Ella irrigiditaquasi svenutametteva dei piccoli gridiselvaggie difendeva i veli del suo petto con pudore d'inferma. Ad un tratto simise a stracciarli lei stessafuori di sépoi gli si abbondonò nelle bracciacon rigidità cataletticabalbettandosinghiozzandoannaspando colle maniverso il letto. Egli ve l'adagiòcolle vesti disfattei capelli sparsistecchita come un cadavere.

Delle lagrime le scorrevano lente lente per le guance; avea gli occhi chiusie le labbra contratte da una convulsione dei muscoli del viso scoprivano ladoppia fila dei suoi denti lucidi ancora come perle.

Mentre sembrava che dormissespalancò gli occhi all'improvvisoguardandolosbigottitacome delirantee lo respinse con impeto.

«No! quella donna... quella donna ch'è sempre lìfra di noi!... No! no!»

Da quel momento si mise a vaneggiare per quasi mezz'ora; infine si assopìpenosamente. Giorgio udiva il suo respiro sibilantela sentiva trasalire fra lesue braccia; di tanto in tanto ella si scuoteva con un gran sussulto e glifissava in volto dei grandi occhi sbarrati senza vederlo; dormiva colla testaarrovesciata all'indietro; il naso sembrava acuto e sottile; gli occhi eranoincavernati; due grandi sfumature livide solcavano le gote; i capelli eranosparsi in disordine sul cuscino; la veste bianca la modellava rigidamentedistesa com'era sul letto; attraverso la scollatura semiaperta si vedeva ilpetto solcato da ombre profonde. Giorgio fissava su di lei che dormiva gli occhiaffascinati. Quell'orribile notte d'amore durava eterna.

Finalmente apparvero i primi barlumi del giorno sui quadri che ornavano lepareti e sul bianco cortinaggio; i mobili cominciarono a disegnarsi nettamentein una luce ancora incerta; allora l'inferma si svegliò.

«Ho dormito... mi sento bene!» mormorò«mi sento proprio bene.»

Cercò brancolando la mano di Giorgioe si voltò verso di lui. Al chiaroredell'alba il suo viso sembrava ancora più incadaverito.

«È giorno diggià? Come ho dormito a lungo!... Aiutami ad alzarmivogliovedere l'alba.»

Ei la sollevò di pesoe tenendosi colle braccia al collo di luil'infermaandò sino alla finestra. Tutti nell'albergo dormivano ancora; alcuni impiegatidella stazione andavano e venivano fra le rotaie colle lanterne accese: un galloritto e pettoruto su di una catasta di regoliprovava il suo mattutino; ilcielo era di un azzurro cupostriato di vapori lattiginosie leggermenterosato verso l'oriente; sul mare ancora grigio e fosco si vedeva per l'ampiadistesa la lunga fila delle vele dei pescatori.

«Che pace!» mormorò Nata. «Quanta gente felice ci sarà a quest'ora!»

Giorgio rabbrividì.

«Addio!» gli disse ella risolutamentema con uno sforzo - avea la vocecommossa e gli occhi pieni di lagrime. «Ritornerai stasera?»

«Si»

«Me lo prometti?»

Gli teneva le mani.

«Sarà per poco ancora!... Vieni... Non ho che te. Sarà per poco ancora!»

Giorgio l'abbracciò col cuore preso come in una morsaed ella si lasciòbaciareimmobilecolle labbra chiuse e gli occhi fisi.

Egli uscì barcollando.

PARTE QUARTA

XIV

Rendona non avea potuto fare la solita visita della sera alla sua ammalatadell'albergoperché era stata chiamato in tutta fretta a casa La Ferlita. Colcadere del giorno il male del bambino si era aggravatola febbre erasi fattaviolentissimae la difterite si era presentata improvvisa e minacciosa.

Il bambino era stato messo sul lettoed Erminia non gli si era toltad'accantospiandone con ansia ed angoscia i più piccoli sintomi sul voltoincadaveritoe trasalendo allorché l'udiva strillare in tal maniera e tal vocesoffocata che gli occhi e il cuore della povera madre si gonfiavano di lagrime.Sin che il sole avea scintillato sui vetri della finestra l'era parso disentirselo in cuore a guisa di un raggio di speranza; ma appena le tenebrecominciarono a calaresembravale che si aggravassero come gramaglie su quelcorpicino sofferente e l'illividisserose le sentiva condensare in petto comeun gruppo di lagrime.

Tutti i domestici erano in moto per la casama ella non permetteva chealcuno entrasse. Era sola in quella gran camera piena delle ombre delcrepuscoloaccanto a quel poveretto che agitava di tanto in tanto le piccolebraccia in cerca d'aiuto; non diceva una parolale lagrime le scorrevano zittezitte sul visoe solo allorché udiva un passo nell'altra stanza volgeva versol'uscio gli sguardi ansiosi per interrogare la prima impressione del medico cheveniva d'ora in ora. I suoi occhi si seccavanodivenivano febbrili ed ardenti;faceva alcune domande al dottoredicevagli quel che l'era sembrato vedere dellefasi del male con poche parolebrevi e nervose. Verso le nove arrivò il cuginoCarlo tutto sottosopra.

«Cos'è stato?» domandò con premura; «i tuoi domestici mi hannospaventato.»

Ella gli fece cenno di parlar pianogli strinse la mano forte forteescoppiò in pianto. Gli disse fra i singhiozzi e sollevando il velo che coprivaGiannino:

«Vedipoverino!... Vedi come soffre!»

A quelle parole disperate e a quelle lagrime che venivano dal fondo delcuoreanche gli occhi del povero giovane si gonfiarono. Erminia lo guardavapiangendo in silenzioe vedendolo così commosso gli disse sottovocema conaccento penetrante:

«Tu gli vuoi bene almeno a quel poverino!... Non te ne andarenon abbiamoche telui ed io!...»

In quella entrò il dottoredomandò una candela e si accostòsilenziosamente al bimbo; tutti parlavano piano e camminavano in punta di piediin quella camera triste e scura. La candela faceva un gran cerchio giallo sulcapezzale. Nessuno osava fiatare; Rendona finalmente si allontanò dal letto eandò a posare la bugia sul tavolino.

«Non abbiamo peggiorato da un'ora in qua»; rispose lentamente alla febbrileinterrogazione degli occhi di Erminia. «La respirazione è ancora abbastanzalibera. Bisognerebbe tentare una piccola operazionee se questa riesce ilbambino è salvo.»

«Dolorosa?» domandò la madre rabbrividendo.

«No... non molto.»

La poveretta si celò il viso fra le mani. Il dottore scrisse due righe su diun foglio del suo taccuinoe andò in anticamera per dare degli ordini aidomestici.

«Ma bisognerebbe avvisare tuo marito»esclamò Carlo.

Ella non rispose.

«Ho già telegrafato a Giarre»disse Rendonacui Carlo ripetél'osservazione.

«Ma la campagna di Giorgio è lontana più di un'ora e mezzo dal paese!Sarebbe stato meglio mandare un uomo a cavallo per le scorciatoie.»

«Ci ho pensato; forse arriverà prima. Manderemo Giuseppe.»

Erminia colle labbra strettecolle mani giuntecogli occhi sbarrati e fisinel vuotolasciava direnon rispondeva nullasembrava che un'onda di amarezzale gonfiasse il petto e le vene del collo.

«Andrò io;» soggiunse Carlo«e farò più presto di tutti.»

«No!» esclamò allora Erminia con voce vibranteafferrandolo per la mano.«Tu no! Non ci lasciare soli anche tu.»

Finalmete la signora Ruscagliala quale avea saputo tardi della piegaminacciosa che avea preso il male del nipotinoarrivò anche lei tuttascalmanata. Erminia si lasciò abbracciare e scoppiò di nuovo in singhiozzinelle braccia della madre.

Tutti piangevano come se il povero Giannino fosse morto. Il solo Rendonaandava dicendo:

«Coraggiocoraggiosignori miei! finalmente non siamo a questo estremo!...Abbiamo delle speranzevi dico!»

Alle parole del dottore succedeva un silenzio penoso. La signora Roncagliapiagnucolava in un canto del canapè per conto suo; il medico passeggiavalentamente per la stanza; Erminiaseduta ai piedi del lettocovando cogliocchi il bambinonon si muoveva; Carlo le stava vicinoall'impiediappoggiandosi alla colonna del lettosenza muoversi e senza fiatare anche lui.Si udiva nella strada il gran brulichioil gran va e vieni di carrozze. Ditanto in tanto passava un monello cantando a squarciagola la canzone venuta colmaggio. Il pensiero della povera madre errava vertiginoso su tutte le dateprincipali delle breve esistenza del caro infermo; le pareva di udire il suoprimo vagitoquel vagito che avea fatto trasalire la prima volta le sue visceredi madrericordavasi della prima volta che l'avea visto a popparee del primosorriso che le avea fattoe delle prima cuffietta che avea ricamato per luiquando l'aspettavae del primo giorno che lo avea visto palliduccioe dellaprima visita che avea fatto il dottoree la gioia muta e profonda che s'erasentita in fondo al cuore quando quelle inquietudini s'erano dissipate... e poila mattina istessaquando avea sollevato il velo di quella cullae aveatrovato la sua creaturina con quell'orribile febbre. In seguito si risovvenivadi tutti i castelli in aria che avea fatto quando l'avea cresciuto cogli occhi ecoll'immaginazionee l'avea visto andare a scuolae avea udito il suo piccolopasso rapido nell'altra stanzae la vocina che la chiamava mamma - lesembrava di conoscere già il suono di quella voce. In mezzo a tutti questiricordice n'era un altro che vi si mischiava ogni momentodi luiche erastato sempre lìcon leiin quei castelli in aria e in quelle gioie maternedi lui che aveva tenuto tante volte Giannino nelle bracciaprovando unmatto piacere quando quel caro piccino sgambettavae quelle manine gliaccarezzavano il viso... e adesso lui non sapeva che il meschinello in quelmomento era steso sul lettogemendo con voce soffocatae chiedendo aiuto allasua povera mamma... e l'avea lasciatocosì maleed era partitoe non eralà.

Il domestico che recava la boccettina ed i piccoli utensili ordinati dalmedico picchiò discretamente all'uscio. Erminia sussultò e si levò di bottotremando convulsivamente; seguiva la boccettina e la piccola busta nelle mani diRendona con l'occhio spaventato di un uccello prigioniero. La signora Ruscagliacominciò a dire che quello spettacolo le faceva malee andò ad aspettarel'esito dell'operazione in sala; mentre il medico si avvicinava al lettolamadrepallida come un cadaveregli afferrò le braccia.

«Dottore! dottore!...» e la poveretta in preda alla convulsionenon potevapiù parlare. «Cosa fate? Cosa gli farete? Gli farete male?»

«Ma no! È una cosa da nulla; coraggiocara signora Erminia! vedrà che ilbambino sarà salvo; mi lasci fare: se tardiamo ancora una mezz'oranonrispondo di nulla.»

«Allora... si! facciam presto... OhVergine santadove ho la testa?... Civorranno dei panni? degli apparecchi?...»

«Ma nulla ci vorrà. Ci vorrà solo chi mi tenga il bambino un po'sollevato.»

«Io! ci son io! Ma come qualcuno?... Chi potrebbe tenere mio figlio?»

«No! lei proprio no! Nello stato in cui èrischierebbe di farmi fare unmalanno.»

«Lo terrò io»disse Carlo.

Erminia stette un momento a guardarlocome smemoratae assentì col capo.

«Ohdottoremi raccomando! il poverino soffre tanto! è così piccino!...OhVergine santa... OhSignore!...» e singhiozzava parole rotte e sconnessee andava e veniva per la camera senza sapere che facessetorcendosi le maniaggirandosi sempre intorno al piccolo gruppoformato da Rendona e da Carlo cheteneva il bambino vicino al lumeverso il quale era attratta e avea paura diavvicinarsi. Seguiva con occhi ansiosi i più piccoli movimenti del medicochele sembravano di una durata eterna; si sentiva rimuovere dentro il pettocomese le lacerassero il cuoretutti i ferri più lucenti e mostruosi da chirurgoche sapesse immaginare. Il bambino strillava con voce soffocata; ad un trattomise uno strillo più acuto; allora ella si avventò con un salto da belva. Ilmedico riponeva la busticina e diceva tranquillamente:

«Riponetelo sul letto. È andata benone.»

La madre prese il figlio dalle braccia di Carlo con un'aria feroceeadagiandolo sul lettoscoppiò in una crisi di pianto che la sollevò.

La signora Rendona rientrò gemendoe il dottore si sbracciava invano arassicurare le due donne dicendo che tutto era andato beneche ci era speranzache il male avrebbe preso piega migliore dopo la mezzanotte. Il bambino infattisembrava respirare più liberamente. Erminia andava dal letto all'orologioe ditanto in tanto fermavasi presso la finestra ad ascoltarecome se aspettassequalcheduno; poi ricominciava a passeggiareun po' barcollando. Il dottore aveapromesso che non si sarebbe mosso sin dopo la mezzanotte. Verso il tocco lasignora Ruscaglia cascava dal sonnoe tutti concordemente l'avevano indotta abuttarsi sul lettocosì vestita com'era. Erminia era andata ad accompagnarlae mentre ritornava nella sua camera incontrò nel salotto il cugino Carlo checorreva verso di lei.

«Sta allegraErminia! il dottore dice ch'è salvo! La febbre rimette; s'èaddormentato tranquillamente e respira benissimo.»

La poverina si fece smorta in viso; rimase un istante senza dir nullacogliocchi sbarrati in quelli di luitutta tremantepoi gli buttò le braccia alcolloe scoppiò in singhiozzi dicendo:

«Ohquanto ti voglio bene!»

Giorgio arrivò a casa ch'era prestissimo. La porta aperta a quell'orainsolitai domestici affaccendatigli misero addosso un gran turbamento e lofecero correre alla camera della moglie in grande agitazione. La lucerna ardevaancoranonostante che la finestra fosse già chiara: Carlo e Rendona eranoseduti sul canapé; Erminiacurva sul bambinovolgeva le spalle all'uscio;udendo entrare il maritoella si voltò trasalendoe vedendolo rimase comesbalorditatrafelata in visole labbra le incominciarono a tremare senza poterdire una parola; poi quel tremito si estese alle gambee cadde seduta sullapoltrona ai piedi del letto. Carlo e il dottorevedendo il pallore di Giorgioche non osava fare un passo nella cameras'erano avvicinati a lui.

«Non è nulla!» diceva Rendona«siamo fuori di pericolo; l'abbiamoscampata bellama siamo fuori di pericolo.»

Giorgio si avvicinò al letto come non si reggesse bene sulle gambe;interrogò ansioso l'aspetto del bambino che dormivapoi prese con manotremante la mano della moglie. La poveretta si lasciava farema tremando piùforte; all'improvviso si gettò bocconi sul letto e scoppiò in singhiozzi avoce alta.

«Non è nulla» andava dicendo Rendona«lasciatela sfogarsi. È una crisisalutarela tensione nervosa durava da un pezzo. Lasciatela piangere che lefarà bene.»

XV

La sua coscienza però diceva a Giorgio che «c'era invece qualche cosa»qualche cosa che gli faceva evitare gli sguardi della mogliegli toglieva ildiritto di domandare del figlio suoe lo teneva muto e avvilito in presenza diErminia. Balbettava con imbarazzo poche parole sconnesse e prive di senso; perfortuna la suocera e il dottore erano lì per coprire tutto con la loroparlantinae il bambino migliorava sempre nel corso della giornata; leassicurazioni incoraggianti del medico facevano spuntare dei sorrisi ediradavano le fronti increspate. Erminia cominciava ad esser calmama nellostesso tempo l'effetto della stanchezza e dell'agitazione sofferta facevasisentire; diventava sempre più pallida e abbattuta; la signora Roncaglia laindusse finalmente a mettersi in letto vicino al suo bimboil dottore uscì perle sue visiteCarlo andò per i fatti suoie la casa ridivenne tranquilla;solo si udiva il passo di Giorgio che andava su e giù pel suo gabinetto. Eglifu molto male per alcuni giornisenza che nessuno ne trapelasse mai nulla; unsentimento ombroso di altera delicatezza gli faceva dissimulare penosamentequello che soffriva nelle lunghe notti travagliate dalle febbri e dagli incubi.

Fin da quel giorno una inesplicabile freddezza cominciò ad insinuarsi framarito e moglie. Giorgio entrava nella camera di leis'informava del figliostava presente tutto il tempo che il medico faceva la sua visitagliraccomandava con premura la salute della mogliela quale era rimasta moltoscossae poi non si faceva vedere fino a sera. La serena e rassegnata dolcezzadi Erminia gli pungeva il cuore nel più vivo; sembravagli scorgere qualcosad'incertoqualcosa che voleva nascondersi quand'ella gli rivolgeva la parola egli figgeva in viso gli occhi. Era arrendevolissimo ai menomi desideri dellamoglie: ma allorché Rendona avea consigliato un cambiamento d'aria per la madree per il piccolo convalescentee avea suggerito che tutta la famiglia andasse apassare l'estate nella loro campagna presso Giarreegli si era opposto conmolta vivacitàsenza addurne le ragioni. Una volta che proprio ci sarebbestato urgente bisogno di una sua gita a Giarresi era rifiutato risolutamente.

Non era più andato ad Acireale. Due o tre volte era arrivato sino allastazionee poi era tornato indietro più combattuto che mai. Non avea ilcoraggio di rivedere Nataavea paura. Quella moribonda era sempre lìcoi suoiocchi impietratiil suo viso lividoil suo amaro sorriso di rimprovero.Dall'altro canto c'era in fondo al suo cuoreal di fuori di sénelle ciarledel mondonegli sguardi dei suoi amiciun vago sentimento del doveredellagiustiziadell'onoredi tutto quello che improvvisamente gli avea fattosentire la sua mano di ferro nel momento in cui era arrivato sull'uscio dellacamera del suo bimbo moribondosentimento che avea conosciuto alloraper laprima volta in sua vitasentendolo insorgere dentro di sé come una vampa dirossorecome una fitta di rimorsoe gli s'era inchiodato làin quella casain ogni suo passoin mezzo a tutti i sofismi della passioneincrollabile einesplicabile. Sembravagli in ogni momento di vedere laggiùsu quell'orizzontedietro il Capo dei Muliniqualcosa che l'affascinava e l'atterriva. Avea ilpresentimento di aspettare una notizia funesta; provava delle scosse nervoseall'annunzio più semplicequando il domestico entrava nel suo gabinettoquando il campanello squillava all'improvviso. Errava per la casa quasibarcollante; cercava delle occupazioni; si creava degli affari imperiosi; andavae veniva con un'aria affrettata ed inquieta; in certi momenti avea gli occhi diun pazzo. Quando vedeva giungere il medico diveniva pallido; allorché Rendonacominciava a parlare dei suoi ammalati si alzavapasseggiava per la cameratornava a sederenon diceva una parolalo guardava con aria stralunata. Ungiorno che era stato a fargli visitaegli era scappato dalla camera dellamoglieadducendo un pretesto; poi l'avevo trovato sull'uscio dell'anticamera;mi domandò soltanto:

«Come sta?»

«Credo al solito»gli dissi.

«Non l'hai più vista?»

«No...»

«Insommanon c'è stato nulla di nuovo all'albergo?...»

«Nulla.»

Egli respirò con forzae mi strinse la mano con un tremito leggiero:«Grazie.»

Di tratto in trattoin mezzo alle occupazioni della giornata un pensierodispotico gli attraversava la mente e gli dava come una scossa al cuore; laparola gli moriva sulle labbrai suoi occhi si fissavano nel vuotosbarratiquasi vedessero sorgersi dinanzi un fantasma. Aveva delle impazienze bruscheirragionevolidei tentativi di rivolta contro tutto ciò che non avevarispettato altrimenti che a parole. Tutti i principii del bene e del maledeldiritto e del torto gli si erano confusi in mentes'erano smarriti in unagrande concitazione; ne parlava con parole amarecome se gli si gonfiassero incuore con degli accessi irrefrenabili d'amarezza e di collera. Osservando allasfuggita Erminia così rassegnatacosì calma in apparenzasentiva un sordorancore verso quella gran serenità del bene che a lei non costava nullaeppureinaspriva le sue segrete torture; le invidiava la coscienza tranquillae sidomandava quel che valesse quella pace non contrastata; quella gran calmainalterata dell'onestà gli rinfacciava ad ogni momento la sua agitazionefebbrile e il turbamento della sua coscienza; se ne sentiva soggiogatoinvidiava sordamente sua moglieammirandolae nei momenti delle sue angosciepiù acute provava un sentimento di ostilità contro di lei.

Se avesse potuto immaginare quanto costava alla povera Erminia!

Ella avea tutto indovinatocolla delicatezza squisita della donna; gli amicidi Giorgio s'erano creduti in debito di narrarle un po' alla volta vita emiracoli del maritoe specialmente la leggenda del viale Principe Amedeo;Giorgio in fondo era troppo onesto per riuscire a dissimulare completamentequello che soffriva. Da principio la povera donna s'era trovata sbigottita;l'isolamento in cui avea passato la prova crudele di quella notte in cui ilbambino era stato per morire le faceva pauravedeva quel triste isolamentosempre dinanzi a séper quant'era lungo l'avvenirenel mutato contegno dellosposonelle sue attenzioni impacciate e timidenelle sue distrazioninellesue preoccupazioni frequentiin quegli occhi che evitavano i suoie cheavevano costantemente qualche altra cosa dinanzi. Si sentiva derelitta; quelbambino convalescente le stringeva il cuorequasi fosse orfano e qualche voltale carezze del padre urtavano la sua delicatezzale repugnavano come se fosseromendicate; allora avvampava in viso. Sentiva istintivamente l'abisso cheallargavasi fra lei e quello sposo sul quale si erano appoggiati ad uno ad unotutti i suoi affettidal giorno ch'era rimasta sola con luiin quella carrozzache l'allontanava al gran trotto dalla sua mammadalla sua casadalle sueaffezioni passatee metteva intera la sua vita nelle braccia di quell'uomo cheper pochi mesi innanzi era ancora uno sconosciuto per lei. Ora che lo sentivaallontanarsi alla sua voltaprovava lo stesso sentimento d'inquietudinelostesso sbigottimentolo stesso bisogno di attaccarsi a qualche cosa che alloral'avea fatta attaccare al braccio di lui; l'isolamento stavolta era più amaropiù agitatoera punzecchiato tratto tratto da vaghi turbamentida immagini eriminiscenze che la facevano sognare ad occhi apertile gettavano delle fiammesul visodelle tepide correnti nei nervidurante le lunghe ore silenziosedella sua camera desertae la facevano ridestare di soprassalto. Non osavalagnarsi; nascondeva gelosamente quel che soffrivanon per dignitàma per uninesplicabile bisognoperché non osava confessarlo a se stessa. Poicosa piùdolorosaquello sposo che le toglieva giorno per giorno non solamente il cuorema l'intimitàla schiettezzala fiduciail sorrisole imponeva soggezionediventava non solo un estraneoma un padrone.

Da quella notte in cui aveva sofferto per la prima volta comenelle grandiafflizioni che avea avuto da ragazzanon avea creduto che si potesse soffriregiammaiil cuore della donna si era formato con tutte le tenerezzecon tuttala sua delicata sensibilitàcon tutti i tesori dell'affettomeglio di comenon l'avessero fatto le prime impressioni della vitadella giovinezzadellafelicitàdell'amore; meglio di come non l'avesse fatto il primo sentimentodella maternità che s'era svegliato col primo vagito del suo bambino - e inquella notte il suo Giorgio non era stato là... il suo pensiero rifuggiva dalcercarlo dove era stato. Sentiva perciò una gran riconoscenzauna tenerezzapiù intensapiù profonda pel cugino Carlo che avea sofferto con lei; perchéin quella notte in cui tutti i suoi pensieri si sconvolgevano e si abbuiavanoerale parso che tutto il mondo dovesse soffrire come lei. Il primo irromperedella sua gratitudine era stato impetuosol'era montato dal cuore alla testacome una vertiginel'avea fatta trasalire sin nelle più intime fibre delcuore! Però da quel momento in cui avea gettato le braccia al collo del cuginocome se fosse stato un salvatoreavea evitato istintivamente di trovarsi solacon Carlo; sentiva che il gran bene che gli voleva e che gli avea sempre volutola turbava per la prima volta - allorché l'avea rivisto si era fatta di porporain viso.

Anche Carlo non sembrava più quel di prima. Stava dei lunghi quarti d'ora insilenzio e giocherellando coi guanti o colla frangia del canapèmentre lasignora Ruscaglia chiacchierava colla figliao mentre Erminia colmava dicarezze il suo Giannino ancora palliduccio; avea perso il suo gaio umoreil suoriso spensieratola sua franchezza giovanile; evitava di parlare di quelle coseche potessero rimorchiare a tradimento il volume del Prati o l'anticamerettagialla; discorreva di rado della sua partenzae vi pensava spesso: siconfondeva qualche volta allorché Erminia o suo marito gli domandavanoparticolari de' suoi viaggie si alzava dieci volte per andarsene quandorimaneva solo colla cugina. - Anche luila prima volta che avea rivisto lacugina e s'era accorto delle vampe che le montavano dal collo alla frontes'erasentito far di bracia in viso. Erminia credeva di volergli bene perché egli noncercava di leggerle in cuoree per lo studio che metteva nell'evitare leoccasioni di trovarsi soli e imbarazzati tutti e due. «Quando ritornerai?» glidomandava. «Chi lo sa? fra duefra tre anni...» Erminia sentiva una grantenerezza pensando che forse non si sarebbero visti mai più. «Ritorneraicontrammiraglioalmeno?» soggiungeva colla migliore intenzione di sembraregaia e di farlo ridere. Egli sorrideva tristamente infatti e la guardava in visosenza dir altro.

Il turbamento di Erminia però cominciava a dileguarsiperché in cuore lesi andava gonfiando lentamente una gran pienezza di vitauna grande gioiainquieta e inesplicabileuna dolcezza che si ridestava di tanto in tanto conpunte acute le quali le traversavano tutte le veneuna dolcezza che l'invadevache l'assopiva a poco a pocoche gettava un balsamoun velosulle sueangosciesul suo sconfortosulle amarezze e il dolore di vedersi abbandonatadal maritoe fin sull'immagine del maritoe le faceva sentire come una dolcestanchezzacome un gran bisogno d'addormentarsi in qualche cosa. Non sapeva dache le venisseavea paura di indovinarloera felice di ignorarlo. Quando ilsuo spirito si svegliava inquietoansiosoe turbatoprovava un gran desideriodi rituffarsi in quell'obliodi stare vicino al cuginodi ascoltare la suavocedi seguirlo col pensiero nelle lontane regioni che alla sua immaginazionesembravano tutte colorate di azzurro; le pareva di volergli bene perché accantoa lui sembravale di ritornare agli anni spensieratamente felici della suagiovinezzafra le rose del giardinocolte per luile strette di manodell'anticameretta giallae i versi letti insiemevicino a quel tavolinettosotto quel lume dalla gran ventola dipinta a fiori. Sognavasognavacogliocchi fisi; il passato era tutto azzurrocome gli ignoti paesi dove il suopensiero soleva seguir Carlo; non vi si vedeva che le gioie più schiettepiùdolcipiù profondee nello stesso tempo più vaporose. Allora stava adascoltarlo delle ore intiere zitta zittaa guisa di bambina; ei narravasemplicementesenza enfasima coll'accento della veritàle splendide albedel marei dolci tramontila pace immensale contrade diverse e lontaneletempeste solenni e giganteschele febbri delle battagliefra il romboassordanteil comando breve ed austeroil tumulto della vita e della mortelesublimi ebbrezze della lotta e della vittorial'orgoglio della gloriadell'onoredella patria e della bandiera. Ella non fiatavasi sentivastringere e allargarsi il cuore con violenzacambiava di colore cento volte; loguardavalo guardavanon poteva saziarsi di mirarloe il suo pensiero erravalontano; le pareva di vedere il suo povero cugino ch'era piuttosto delicatocosì giovanecosì deboleorfano di padre e di madrein mezzo a tutta quellarovina d'uomini e di elementi in collerae sorridentecon dolcezza come inquel momento; allora sentiva una gran tentazione di buttargli le braccia alcollo e di non lasciarlo partire mai più. Il cuore le si gonfiavale sigonfiava con un nodo che le stringeva la golae finalmente una volta scoppiò apiangere.

«Cos'hai?» domandò Carlo sorpreso interrompendosi.

«Nulla... mi fai male... Mi sembra d'aver paura.»

Ei la fissava attentamente. Erminia di pallida s'era fatta rossa come unpapaveropoi s'era fatta pallida di nuovo. Allora Carlo le afferrò la manocon un lieve tremitosenza osare di mirarla in facciaed ella si nascose ilviso nelle mani.

«Ora sei tu che mi fai male!» le diss'egli dopo quel silenzioe parlandopiano. «Abbi un po' di pietà di me!»

Erminia alzò su di lui gli occhi lagrimosi. Anche in fondo agli occhi di luisi vedevano luccicare delle lagrime; ei chinò la fronte sulla manoe dopoun'altra breve pausacon voce appena intelligibile:

«Bisogna che io abbia il coraggio di partire... intendi?... Bisogna ch'iol'abbia questo coraggio!»

Non si dissero altro. Si sentiva il passo di Giorgio nell'anticamera; ella sialzò trasalendo e si allontanò con vivacità; il cugino alquanto pallido preseil suo cappello bruscamente e si accomiatò in fretta.

Giorgio entrava come fosse un estraneo in camera della mogliecon un'ariaimbarazzata che la sua disinvoltura abituale non riusciva a dissimulare. Erapallido anch'esso da qualche tempoe dissimulava le sue sofferenze con unaenergia virile che non sarebbesi supposta in lui. Una delle sofferenze piùacerbe che sentisse era il supplizio di dover stare una mezz'ora al cospettodella mogliedi dover incontrare lo sguardo limpido di leie ascoltare la suavoce inalterabilmente dolce e calma. Quella camera avea una fisionomia onesta;l'aria sembrava circolarvi pura e liberafra quel gran letto biancoquellaculla color celestequei mobili semplicissimi - avea un che d'augusto. Giorgiovi entrava sempre come fosse in chiesae stava dinanzi alla mogliedi cuiistintivamente indovinava i dolori e le ripugnanze che egli doveva ispirarlecon una cortesia affettuosa in fondoma che sembrava glaciale. Poiin quellagran camera silenziosa e tranquilla si sentiva un gran benesembravagli che ilsangue gli si rinfrescasse nelle venee l'immagine fosca e fatale di quellamoribondadi quell'amore spaventosonon osava inseguirlo sin là. Colà eglisi riposavae se l'avesse osato avrebbe domandato alla moglie il permesso difargli dormire un sonno senza incubi in quella grande poltrona ai piedi delletto. Sentiva un gran rispettouna gran gratitudineuna gran tenerezza per lamadre di suo figlio che era costretto a trattare in quel modoper la donna cheportava così immacolatamente il nome suo; l'ammirava come una natura superioreparevagli impossibile che tanta serenitàtanta purezza potesse essere turbatae che le passioni che avevano combattuto lui così violentemente potesserosconvolgere quella tranquilla coscienzaquell'onestà salda e schietta. - Unavoltavedendo i due cugini seduti accantoun pensiero gli avea attraversato lamente come un lampoe s'era sentito mordere improvvisamente al cuore.

XVI

Da quel momento Giorgio avea guardato la moglie con tutt'altri occhi. Lescopriva ogni giorno di più un'attrattiva pudicavelataprofonda direimafortissimanegli occhi limpidinell'accento carezzevolenell'attitudinemodestain quel cuore che potea sentire anch'esso il soffio dello stessouragano che devastava il suoche anzi l'avea forse sentitoe che lo soffocavacoraggiosamente; coteste qualità la rendevano più leggiadra; sentiva che senon fosse stato suo maritola seduzione di quella grazia così schiettacosìingenua e riservataavrebbe acceso sino al furore i suoi desideri di seduttorestanco e noiato di artifici donneschi. L'immagine agitata e agitante diquell'altra donna tanto diversatanto lontanaannebbiavasiscompariva a pocoa pocoed era strano che quell'uomo amasse per la prima volta sua moglieconquel medesimo impeto che l'avea trascinato a tutti i fuorviamenti della passioneperché cominciava a sentire che un altro avrebbe potuto essere trascinatocomeluidall'attrattiva delle qualità assolutamente opposteda quelle virtùumili e casalinghealle quali allora solamente sentiva come si fosseroappoggiati inconsciamente il riposola tranquillitàla felicità della suavita.

Nell'anticamera si era incontrato con Carlo; costui l'avea appena salutato;sembrava volesse evitarlo. Erminia era ancora pallidae avea pianto.

Nessuno saprebbe ridire quello che soffrisse quell'uomo nella mezz'ora chepassò vicino alla mogliela quale celavagli le lagrimegli nascondeva ilcuorenon gli apparteneva piùegli che in fondo avea una gran dose ditenerezza e di bontàe ch'era stato cattivo soltanto perché era deboleeglich'era sensibile sino ad essere ombrosoed era delicato sino all'orgoglio.

«Il dottore come ha trovato Giannino?» domandò.

«Meglio... assai meglio...»

«E tu come stai?»

«Bene.»

«Diventi sempre più pallida di giorno in giorno... bisogna consultareRendona.»

«Io sto benissimo.» ripeté ella brevemente.

«Hai bisogno di rifarti... Se vuoi che andiamo in campagna... aTremestieri» si affrettò ad aggiungere.

«Come vorrai.»

«Io desidero quel che potrà giovarti...»

«Anche tu non stai bene...» diss'ella esitando. «Se vuoi che andiamo...»

I loro occhi s'incontrarono per caso e per la prima volta; ei li stornòsubito perché sentiva che il suo cuore gli si palesava.

«Io sto bene... non si tratta di me»rispose reprimendo un'indefinibilecommozione e stringendosi nelle spalle. «Parlane con Rendona; quando avreterisoluto di fare qualche cosaavvisami.»

Appena lasciò Erminiaandò a rinchiudersi nelle sue stanzeadducendo ilpretesto di un affare urgentee per tutta la sera si udì il suo passo febbrileche andava su e giù pel gabinettocome in quel giorno in cui avea trovato ilfiglio infermo.

Erminia era rimasta astrattasenza muoversi da quel canapè sul quale l'avealasciata suo maritodi tanto in tanto gli occhi le si facevano umidi.

La sera venne la visita della signora Roncagliama stavolta non eraaccompagnata dal suo ufficiale. «Sai la bella notizia?» disse alla figliuola;«Carlo ha ricevuto l'ordine di partire fra tre giorniper andare a raggiungerea Genova il suo bastimento che salpa per la Repubblica Argentinapel Paraguayche so ioinsomma per l'Americaun brutto paese in cui si ammazzano fra diloro come cani arrabbiatie quasi non bastasse quel castigo di Dioi povericristiani muoiono di febbre gialla al pari delle mosche. Domando io se è agireda galantuomini! E proprio adesso che quel povero ragazzo ha tanto bisogno dirimettersi in salute! anche tu avrai visto com'è magro e sparuto! Non gli dannoche la miseria di due mesi ogni due annie questa miseria trovano modo ditosarla di un paio di settimaneda veri usurai!... Insommaè una birbonataed io ho detto al signor tenente di rimandare il suo berretto coi gallonieprendersi il benservito. Già un pane non può mancargli in nessuna manieracosì bravo com'è.»

Erminia ascoltava la madre senza fiatare.

«E lui perché non è venuto?» domandò infine.

«Nol so; ti par poco avere a digerire uno di questi dispettacci? Prendersiil benservito! ecco quello che c'è di megliose vuol dar retta a meche hogli anni del giudizio.»

Erminia non disse più nulla; sua madre prima d'andarsene le domandò come sisentisse; ella rispose che si sentiva benissimo e si mise a letto colla febbre.La balia di Giannino che dormiva nella camera accanto la udì gemere elamentarsi in sogno tutta la notte.

L'indomani venne Carlo colla zia; trovarono Erminia alzatasenza il menomoindizio di quel che avesse potuto soffrireun po' abbattuta è veroma eracosì da qualche tempo. Ella avea risposto al saluto e alla stretta di mano diCarlo come al solito; avea preso poca parte alla conversazionecome al solito;anche Carlo mostravasi quale era sempre stato; ad un trattomentre la nonnaaccarezzava il nipotinos'erano guardati tutt'e due nel tempo stessoe s'eranoscoloriti in viso.

«Prendersi il suo benservito!» ripeteva la zia Ruscaglia ritornando allasua idea favorita. «Ecco il mio parere. Poiché questi signori la intendono aquesto modoprendersi il suo benservito! Vedranno che non si trovano fra ipiedi ad ogni passo degli ufficiali che stanno quattordici ore in mare per farloro piacere!...»

«Parti?» domandò Erminia al cugino senza guardarlo.

«Si» rispose egli allo stesso modo.

E non dissero altroperché qualcosa li soffocava.

«Partiràsìse è sciocco partirà!... ma se vuol fare a modo mio vedràche tosto o tardi saranno costretti a venire a pregarlo sino a casa suacotestisignori che stanno a dar ordini da mille miglia lontano!... Proprio adesso cheavea più bisogno dell'aria nativa! Guardatemelose con quel viso lì èproprio il caso di mandarlo a buscarsi la febbre gialla e tutti i malanni dilaggiù... Lasciatemene parlare con mio genero; lui che ha tanti amici alMinistero un buon rimedio saprà trovarlo!»

Erminia levò vivamente il capo.

«No!» esclamò Carlo con vivacità. «Nozia! sarebbe inutile. No!»

«Tu farai quello che vorranno coloro che hanno più giudizio di te» risposela zia perentoriamente. «Non mi fai mica soggezionesaicoi tuoi galloni! Tufarai quello che ti dice di fare la tua ziacome quando eri piccino. Lasciamiandare.»

Rimasti solii due cugini si guardarono di nuovo in viso e volsero altrovegli sguardi tutt'e due nel medesimo istante.

«Quando partirai?» domandò alfine Erminia con voce spenta.

«Sabato.»

«Verrai ancora prima di partire?»

«Sì...»

«Verrai tutti i giorni?...»

«Sìtutti i giorni!... non ne restano che due...»

Dopo un breve silenzio ella gli stese la mano all'improvvisomormorandoquasi si sentisse morire:

«Addio... forse non potrò dirtelo più come adesso... Addio!»

E le lagrime le scorrevano pel visozitte zittesenza che si curasse piùdi nascondergliele.

Sopravvenne la signora Ruscaglia tutta trionfante:

«L'avea detto io! Non poteva andare così! Giorgio dice che è facilissimoottenere una proroga di sei mesi per motivi di salute... insommase ne incaricalui. Tu non partirai!»

Erminiach'era accanto al cuginoudendo quelle parolesi scostò da luicon insolita vivacitàavvampò in visoe per tutto il resto del tempo chedurò la visita parve molto imbarazzata. Il povero ragazzo invece nondissimulava la sua allegrezzada vero ragazzo.

«A rivedercidunque!» le disse quando fu per andarsene.

Ella gli strinse le mani senza dir nulla.

La Ferlita avea ricevuto un colpo doloroso alla domanda della suocera; pures'era impegnato a contentarla per un delicato senso di alterezza. Non osavamenomamente sospettare della moglienon osava accusarla della preoccupazionefebbrile che scorgeva in lei da qualche tempoe che la povera vittima celavacon rassegnazione da martire; ma avea paura; avea paura di quelle passioni checredeva irresistibiliavea paura perché cominciava ad amarla in un altro modoadesso che il cuore gli era contrastato. Ei passò una giornata penosa. La seratrovò Erminia assai abbattuta; la poveretta faceva sforzi sovrumani perdissimulare il suo stato; la febbre che da una settimana l'assaliva tutte lesere era divenuta violenta; ella però era alzatae cercava di occuparsiricamando presso il lume; le mani le tremavanoe gli occhinonostante ilparalumedoveano bruciarle.

«Tu soffri orribilmente!» le disse il marito. «Tu stai molto male. Bisognachiamare Rendonae subito.»

«Perché?... Non mi sento così maleti assicuro. Sarà un po' diagitazione passeggiera.»

Giorgio avanzò la mano per prendere quella di leima non osò.

«Erminia» le disse con tal voce che ella non avea udito da molto tempo;«non hai il diritto di ucciderti così; pensa a tuo figlio... fallo perlui...»

Non osava parlare di sé. Ella levò il capo sbigottitae Giorgio chinòlentamente il suo.

«Domani» diss'ella infine risolutamentedopo un istante di esitazione.«Vedremo domani.»

«Come vorrai» rispose Giorgio levandosi da sedere.

Non le disse una parola del cugino. Sembrava esitante; stette a lungo primad'andarsenepiù a lungo del solito; le guardava le bianche maniil visopallido e dimagrato chino sul ricamoall'ombra del paralumela nuca gentileche la luce indorava leggermente screziandola delle tenere ombre dei ricci piùfinii begli occhi colmi di febbrele pieghe di quella veste che cadevanomollemente sul tappeto; guardava con desiderio quel posto vuoto accanto a leisul canapèche egliil maritonon osava occuparee quella spalliera cheincurvavasi dietro le sue spallesulla quale avrebbe voluto posare il braccio.Poi una nube passò sui suoi occhie si accomiatò bruscamente.

«La signora ha mandato pel medico?» domandò all'indomani.

«Nossignore» rispose il domestico.

«Va beneandate.»

E si rimise a passeggiare pel gabinetto. Più di una volta fu per andare daleie non arrivò all'uscio. Sembrava che avesse dormito poco e male; erapallido ed accigliato. Un'ira sordainesplicabileche lo riempiva di ontabolliva entro di lui. Andava dallo scrittoio alla parete di facciae guardaval'orologio come se aspettasse un'ora decisiva.

XVII

Erminia non avea dormito neppur essa; si levò abbattuta e disfatta in viso;sembrava inquieta anche leipoiché le sue mani tremavano sul ricamo. Verso iltocco si udì una scampanellata; ellasenza muoversicol capo chino sultelaioavvampò ad un tratto in visoe istantaneamente si fece ancor piùsmorta di prima.

Dopo il primo salutoi due cugini rimasero zitti alcuni momentisenza poterdominare un inesplicabile imbarazzo; ella punzecchiava il suo canovaccio piùfebbrilmente che mai. «Carlo» gli disse infine senza distogliere gli occhidal disegno«cosa hai risoluto di fare?»

Il giovanetto sentì la vibrazione sonora che c'era nella voce pacata di lei.

«Nol so...» rispose esitando e sottovoce come lei.

«Bisogna che tu parta... La mammavediparla così... perché certe cosenoi altre donne non le possiamo sapere... Se dai retta a noi altre donnetirovinerai nella carriera e sarebbe un gran danno... Bisogna partire.»

«Tu lo vuoi?...» diss'egli così piano che appena si sentiva.

«Bisogna che tu faccia il tuo dovere...» balbettò più pallida che mai ecogli occhi gonfi... «Bisogna fare il nostro dovereCarlo...»

«Partirò»rispose il giovanetto chinando il capo.

Non dissero più nulla.

«Partirò col treno di stasera» ripeté infine Carlo.

Ella ricamava semprecol capo bassoanzi più basso di primae dellelagrime calde le cadevano ad una ad una sulle mani. Ad un tratto gli stesequelle mani tutte bagnateconvulse e tremantie così rimasero faccia afacciasenza dire una parola.

«Addio!» diss'egli«addio! farò il mio dovere...»

«Anch'io!» mormorò Erminia ricadendo sul canapè.

Il dottore era stato chiamato in tutta fretta. La signora Ruscagliacheveniva dall'accompagnare il nipote colle sue querimonie sino alla stazioneeraaccorsa tutta scalmanata. Erminia avea una febbre violenta con delirioe ilmale mostravasi tanto più pericoloso quanto più era stato trascuratoesembrava irrompere tutt'a un trattocon una veemenza che non dava tempo acombatterlo. Rendona avea messo tutta la casa sossopra in un batter d'occhioederano anche stati chiamati due altri medici per fare un consulto. La Ferlitaandava e veniva come un sonnambulo; ascoltava quello che dicevano i mediciseguiva cogli occhi le persone che si affaccendavano per le stanze; di tanto intanto si passava una mano sulla fronte.

«Che te ne pare?» domandò a Rendona mentre costui rientrava in sala.

L'altro si strinse nelle spalle: «Cosa vuoi che ti dica?... vedremo domanial calar della febbre...»

Giorgio sedette di botto come se le gambe gli mancassero.

Verso mezzanotte era arrivato un dispaccio urgente da Acireale per Rendona.

«Dite che non posso»rispose costui dopo averlo letto. «Telegrafate.»

Giorgio ascoltava istupidito; tutta la notte la passò al capezzaledell'inferma senza muoversi; sembrava fosse stato colpito più mortalmente dellamoglie.

L'indomani la febbre rimesse un pocoil delirio cessòma il male simantenne ancora gravissimo. Tornarono gli altri due medici a consulto.

«Cosa dicono?» domandò nuovamente La Ferlita appena se ne furono andati.

«Nulla di nuovo; non abbiamo peggiorato»rispose Rendona.

«È salva!» esclamò Giorgio.

«No... non ho detto questo... Vedremo.»

Tutto il giorno fu un va e vieni di medicidi amici che s'informavano allaportadi amiche che venivano un momento a bisbigliare sottovoce in sala fra diloroe a strascinarvi il fruscio delle loro vesti. La sera calò lenta etristeuna sera d'estatecaldapesante; i lumi cominciavano ad accendersi; ilrumore delle carrozze si udiva più forte e vicino adesso che era cessato ilfrastuono del giorno; dalle finestre apertefra le grandi tende immobililestelle cominciavano a tremolare in fondo ad un cielo grigiastro; a poco a pocola luce rossigna del gas si disegnò qua e là sulle muraglie delle case difacciavincendo il chiarore incerto del crepuscolo; passavano per la via tuttii consueti rumori della sera; nella gran camera silenziosa e quasi oscuraarrivava l'eco di quei passi discreti che si erano uditi tutto il giorno e nonosavano avvicinarsi all'uscio; si udiva frequentesommesso e timido iltintinnio del campanello in anticamerae di quando in quando la vocina delpovero Giannino che strillava fra le braccia della balia nella camera accantocome se sapesse la sciagura che lo minacciava... Le ore dal tramonto sino allamezzanotte durarono eterne. L'ammalata non delirava piùnon si lagnava piùstava immobilerivolta verso la finestracol viso nell'ombragli occhi chiusipenosamente; di quando in quando li riapriva a stento; si udiva la suarespirazione irregolare e a scosse.

Verso mezzanotte Rendonaaffranto dalla faticadisse che andava a riposareun pocopoiché lo stato dell'inferma in quel momento lo permetteva. La signoraRuscaglia era più morta che viva.

«Va a dormire anche tu una mezz'ora»disse il medico a Giorgio posandogliuna mano sulla spalla. «Devi esser rifinito anche tu.»

Giorgio scosse il capoe non si mosse dalla poltrona ai piedi del letto.

«Ma Giulietta farà quanto tee meglio di te; alle due o alle tre poiverrai a rilevarla.»

«No»disse Giorgio con la voce rauca che avea dalla mattina. «Non hosonno.»

E rispondeva sempre: «È inutilenon ho sonno». Infine Rendona lo lasciòstringendosi nelle spalle.

La Ferlita non avea sonnoma era affranto. I suoi nervi si contraevanopenosamentee sentivasi il capo preso in una morsa gigantesca; gli siripercuoteva penosamente dentro il cervello il rumore delle ultime carrozze e ipassi rari che si udivano sotto le finestre; il caldo di quella notte di giugnolo spossava. In mezzo al grande stordimento della sua mente c'era unguazzabuglio confusodolorosoil passatoil presentele vicende turbolentedella giovinezzai ricordi più lontani e insignificantiNatasuo figlioFirenzeErminiala chiesuola di Tremestieriil viso che avea Rendona quandogli avea detto vedremoCarlo che solcava il mareil treno che sbuffavaalla stazione di Acirealetutte queste cose che si urtavanoche siarruffavanoche si confondevano insieme. In mezzo a quel turbinio c'era semprela figura di quell'inferma su cui teneva gli occhi fisital quale la vedeva inquel momentorivolta verso la finestra e col viso nell'ombra. Il suo pensierorifaceva continuamente lo stesso caminodal viale Principe Amedeo allachiesuola di Tremestierie andava a finire a quel letto bianco su cui ilparalume gettava la sua ombra. Poi ricominciava da capo. A poco a poco in quelgran cerchio scuro si rilevava il corpo di Erminia con contorni indecisiche siperdevano e sfumavano nelle larghe pieghe della copertae a forza di fissarvilo sguardo quel corpo si vestiva di quella tal veste scura a pieghe molli checadevano sul tappeto ai piedi dal canapècom'egli soleva vederla di tanto intantovicino al medesimo lume che dorava quella nuca biancascreziata dalleombre leggiadre dei ricci più fini... e Carlo veniva a mettersi làfra lui edErminiachetamentesenza far rumore. Allora si ricordava di quell'altra donnalontanagli pareva di vederla in quella camera d'albergocolle braccia tesegli occhi da fantasma - il suo spettro sorgeva ad ogni tratto dall'ombrainaspettatominaccioso e severoe sembravagli che egli stesse a guardarlostupidamentesenza sentir nulla in fondo al cuore; a poco a poco sentivasiinvaso da una gran paura del fantasma immobile e silenzioso; allora girava gliocchi smarriti per le note pareti che l'attorniavanoli riposava su tutti gliangolisu tutti i mobili che conosceva minutamentesulla tappezzeria a granfiorisulle tende immobili a larghe strisce orientalisul canapè trapunto eimbottito; sembrava che quelle pareti domestiche lo circondasseroloabbracciassero quasiper proteggerlo e per difenderlo. L'orologio della camerasuonava lentamente le ore una dopo l'altracon rintocchi netti e sonoricomeuno squillo che gli era famigliare anch'esso; poi rispondeva l'orologio dellachiesa vicinapoiad uno ad unonel silenzio della nottespesso confondendoinsieme i rintocchitutti gli altri che conoscevache gli rammentavano dellealtre ore passate in quella stessa camerache gli presentavano con unasingolare chiarezza di contorni e di circostanze le immagini di altriavvenimentidi altri particolari minimi che non credeva di ricordare piùcheerano passati forse inosservati e che orasfumati così nella lontananzaavevano una identità dolcemalinconica ed amara nel tempo istesso: erano leore passate accanto a quel canapèmentre Erminia ricamava - quella sera in cuinon erano andati al balloed ella riempiva tutta la poltrona colle balzaneleggiere e rigonfie della sua veste - i dolci colloqujsempliciaffettuosiintimi d'alloraquando si dicevano tuttoin cui non avevano negli occhidell'imbarazzoin cui non ci avevano delle febbridei turbamentidegli altrifantasmi lontaniassorbentigelosiimplacabiliquando la pace di quellacamera era ancora inalteratae facevano dei progettie parlavano insiemedell'indomanidi Gianninodella campagna con fiducia. Allora quel tempopassato rivestivasi di tutte le iridi dell'ideale. Giorgio v'immergeva il suopensiero affaticato con l'energia di chi sente il bisogno di riposo. Il presentelo sorprendeva sempreinesorabileall'improvvisocon l'immagine di Erminiache era làrivolta verso la finestracol viso nell'ombra. Mentre teneva gliocchi fisi su di lei cercava di indovinare per quali lotte fosse passata ellapure prima di allontanarsi da luicercava di leggere su quei lineamentichenell'ombra sembravano cangiare di aspetto ad ogni istanteal pari di quelli diuna sfingequali passioni si svolgessero mostruosamente in mezzo aivaneggiamenti del delirio. Le ore continuarono a suonaremonotoneimpassibilil'una dietro l'altracon lunghi intervalli.

Verso l'alba l'inferma cominciò ad essere agitata. Giorgio seguiva imovimenti di lei con sguardo ansiososenza osar di fiatare. Ad un tratto siaccorse che gli occhi di Erminia erano spalancatie che da alcuni istanti liteneva fissi su di lui con una singolare tenacità. Ei si levòe stette rittodinanzi a lei. Gli occhi di Erminia erano attaccati su di lui con taleinsistenzacon tale espressione che gli strapparono la prima parola:

«Cosa vuoi?»

Ella non rispondevaguardandolo sempre a quel modo; brancolava col bracciofuori dalle copertequasi cercasse qualche cosapoi gli afferrò la mano.

«Voglio parlarti»gli disse con voce appena intelligibile. A lui parve chequella mano gli stringesse il cuore.

«Ho amato Carlo!...» riprese Erminia vincendo un gran turbamento.

Egli mosse le labbra più voltesenza che alcun suono ne potesse uscire.

«Perdonami...» singhiozzava l'inferma dopo un silenzio più lungo. «Hobisogno che tu mi perdoni... Giorgio!... Non sono colpevolesai!... Non sapevod'amarlo... non me n'ero accorta... ho pianto tanto tanto... ho tantosofferto!... gli ho detto d'andarsene... ed egli se n'è andato... Non è miacolpa se è stato più forte di me... se mi è parso di morire... Ma lui non nesa niente... ti giuro!... nessuno sa quello che ho sofferto... Non dirlo aGiannino... non dirlo nemmeno alla mamma... dimmi che mi perdoni... dimmi chenon mi lasci in collera!:..»

Giorgio non rispondevapiangeva silenziosamentecol viso nascostonell'ombra della ventola. Ad un tratto volse il lume su di leitemendo chefosse delirante; allora scorse quell'espressione d'angoscia indicibile e le videil viso tutto bagnato di lagrime. Non le disse una sola parolasi chinò sullettola abbracciò strettacolla fronte su quella di leie confusero insiemele loro lagrime.

«Oh! come mi fa bene!... Come mi fa bene sentirmi bagnata dalle tuelagrime!... Come mi fa bene vedere che tu piangi!... Perché non hai pianto?...da tanto tempo!... da tanto!... Come mi fa bene!... Mi sembra che facciamirinascere... Mi sembra che guarirò...»

Egli non osava dire come fosse colpevolesentiva che ella lo sapevanonosava domandarle quel perdono che gli era anticipato generosamente. Singhiozzavafortea scossesenza staccarsi da lei; l'alba entrava dolcemente dallafinestra - come in quell'albergo - e imbiancava quell'altro viso trafelatod'inferma.

«Tu guarirai!...» balbettava alfine Giorgio con voce rotta «senti cosa tidicotu guarirai!... e saremo felici un'altra volta... partiremo per lacampagna... Là staremo insieme... Sempre insieme!... e nessuno!...nessuno!...»

«Come mi fa bene sentirti parlare così!... Come mi sembra bella l'alba!...Mi sento megliosìmi pare di star meglio... Fa venire Giannino... Poverobimbo! Fammelo vedere...»

Giorgio andò a prendere il bambinoin punta di piedie la madre l'avvinsein un lungo e muto abbracciocolle lagrime impietrate nell'orbita; poi passòquel povero braccio debole e stanco anche sul collo di Giorgioed entrambi sitennero stretti su quel piccino roseo e frescoche li guardava con i suoigrandi occhioni ancora imbambolati dal sonno.

«Un miglioramento infatti c'è e sensibilissimo»disse Rendona ch'eravenuto per tempissimo. «Un vero miglioramento sul quale si può contare. Allabuon'ora!... forse la scapperemo bella anche quest'altra volta»borbottò frai denti.

XVIII

Erminia migliorò realmentee in capo a pochi giorni entrò in pienaconvalescenza. Giorgio non la lasciava un momento; la covavacome si dicecogli occhiquasi dovesse farsi perdonare un gran fallodimenticando i bruttigiorni passati a misura che la moglie rifioriva in salutee sentendosirinascere anche lui. Godeva di vederla assisa nella sua poltronavicino aquella finestrapallida ancora e dimagratasorridendo con una dolce tinta dimestizia a lui e al suo bambinoe provava un vago sentimento di letizia a farriandare il pensiero a quella notte angosciosapassata ai piedi del lettoaquei tristi giorni agitati. Allorché contemplava le membra gracili e qualchevolta ancora tremanti della cara persona provava una tenerezza nuovapiùprofondapiù intensae insieme una commiserazione affettuosa per quel cheella avea dovuto soffrireuna grande devozioneun gran rispetto per la debolecreatura che gli avea dato tal lezione di forza. In alcuni momenti aveavergognatrovavasi umiliato dinanzi a lei così nobile e modestasentivaconfusamente una gran gioia di amarla tantoe d'esserne tanto amatoperdimenticare insieme a lei.

Verso gli ultimi del giugnoRendona diede finalmente la sua approvazione aquel famoso progetto d'andare a passare l'estate in campagnache Giorgioficcava in tutti i discorsie suggeriva come il rimedio per eccellenza. Facevagià troppo caldo per andare a Tremestieri o alla Piana; Erminia avea fattoaccettare Giarre. I preparativi furono una grande occupazione e una gran festa.Partirono finalmente una domenicacol treno della mattina; dal cielo sembravapiovere della polvere d'oroil mare luccicava di strisce d'argento; i giardinisparsi lungo la linea gettavano dentro i vagoni la fragranza dei fiorid'arancio; alle stazioni di campagna si vedevano dei contadini in abito difesta; le ragazze che passavano per le vie di campagna parallele alla stradaferrata salutavano il convoglio con grida giulive. Alla stazione di Acirealec'era una gran folla di venditori ambulantidi cacciatorie di contadini dellaCalabria che venivano a stormi per la mietitura. I due sposi erano soli nel loroscompartimento; Erminia osservava con curiosità il va e vieni di bagagli eviaggiatori; Giorgio guardava dall'altra parte. Il convoglio stava fermo piùdel tempo prescrittopoiché sulle rotaie si eseguivano delle manovre per unaltro treno speciale che partiva. Questo treno era formato da due sole carrozzeoltre la macchina. In quel momento giungeva un signore di una certa etàbiondoe vestito di neroseguito da alcuni domesticianch'essi in lutto; un impiegatodella stazione chiudeva con fracasso lo sportello di uno dei vagoni cheall'interno era parato di nero; in fondo a quel vagone si vedeva qualcosa comeuna baracon una gran corona di fiori e un gran nastro che pendeva da un lato.Il signore in lutto si era levato il cappelloavea scambiato qualche parola colcapo-stazione ed era montato sull'altra carrozza. Alle finestre dell'albergostavano affacciati molti curiosicoi gomiti appoggiati sul davanzale. Erminias'era rivolta verso il marito e l'avea visto pallido e stralunatoritto pressolo sportelloguardando quello spettacolo con occhi affascinati. La macchinadell'altro treno fischiò e il funebre convoglio partì lentamentebarcollando.Giorgioch'era rimasto tutto quel tempo come una statuasenza fare un gesto esenza dire una parolasi strinse nelle spalle con un brivido improvviso difreddosprofondò il capo nelle spallequasi volesse nasconderveloe caddeseduto.

Erminia s'era fatta pallida anch'essaquasi avesse visto anch'essa quelfantasma implacabile mettevasi fatalmente un'ultima volta sul loro camminoesembrava sorgere dalla tomba per attraversare tutti i loro sogni di pacediamore e di felicità. Giorgio era annichilato: ad un tratto sentì stringersi lamano e si trovò il bimbo che gli era stato messo fra le braccia; il poveroGiannino lo guardava sbalordito. La Ferlita con un movimento brusco e improvvisonascose il volto fra quelle piccole bracciafuggendo una visione terribileesentì le braccia di Erminia che gli cingevano il collo.

«Povero Giorgio!» mormorava Erminia. «Noi t'ameremo tanto! tanto!...»

Eglisenza una lagrimama pallido come un cadaverese li strinse entrambisul pettofortee a lungo.

Allorché il convoglio si fermò a Giarre egli alzò il capo tuttorapallidissimoguardò al di fuorirespirò con forza; sembrava si destasse daun lungo e penoso sonno. Il funebre corteo che li precedeva era scomparso; ilfumo svolgevasi ancora lentamente dall'imboccatura della galleriasquarciandosie diradandosi in larghi fiocchi sul cielo azzurro.

Non rimaneva più altro del passato.

Quando furono a GiarreLa Ferlita vi trovò un dispaccio telegrafico che erastato rimandato dall'ufficio di Cataniae che l'aspettava. Il telegramma noncontenevaoltre l'indirizzo e la datache questa sola parola:

«Addio.»